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Difficile conciliare le norme sulla convivenza prematrimoniale e la libertà del singolo

Il diritto è vivo e si evolve di pari passo con la società che cambia.

A garantire questo percorso ci pensa la Corte di Cassazione che, a Sezioni Unite, consacra la sua funzione di custode dell’interpretazione del diritto: ne traccia i confini, ne specifica il contenuto, lo guida per tutelare tutte quelle situazioni che il legislatore non è in grado di disciplinare.

Quando fu approvata la Legge sul divorzio, nel 1970, l’Italia era molto diversa da quella di oggi: l’auto dell’anno era la Fiat 128, Mariano Rumor era il Presidente del Consiglio, il Cagliari di Gigi Riva issava al cielo il suo primo scudetto, Douglas Engelbart, un ingegnere americano, brevettava il primo mouse, i quotidiani costavano 70 lire e, soprattutto, la convivenza fuori dal matrimonio era più rara di un Gronchi rosa.

Per questo il legislatore del 1970 non introdusse, tra i parametri per la determinazione dell’assegno di divorzio, anche il computo del periodo di convivenza prematrimoniale, spettando al Giudice solo quello di considerare la ‘durata del matrimonio’ e di circoscrivere tutte le sue valutazioni esclusivamente al periodo delle nozze.

Senonché la moglie di un cugino di Lucio Dalla (il che è anche un paradosso, giacché il cantautore bolognese non si sposò mai), ha promosso un ricorso che le Sezioni Unite hanno definito con una sentenza, già proclamata storica, che estende la rilevanza del matrimonio ad un tempo antecedente alla data del sì.

La Corte di Cassazione riconosce la stessa valenza alla durata del matrimonio con quello passato come coppia di fatto.

Ciò nella consapevolezza che «la convivenza prematrimoniale è ormai un fenomeno di costume sempre più radicato nei comportamenti della nostra società cui si affianca un accresciuto riconoscimento – nei dati statistici e nella percezione delle persone – dei legami di fatto intesi come formazioni familiari e sociali di tendenziale pari dignità rispetto a quelle matrimoniali».

Cosa cambia, in sostanza?

Non poco: d’ora in poi i giudici, nello stabilire se e quanto sarà l’assegno di divorzio, dovranno verificare il contributo dato da chi lo chiede «alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei coniugi» anche durante la convivenza prematrimoniale.

In pratica, tutti i sacrifici o le rinunce alla vita lavorativa/professionale del coniuge economicamente più debole, che sia risultato incapace di garantirsi un mantenimento adeguato , dovranno essere valutati non solo dallo scambio degli anelli, ma anche nel precedente periodo di convivenza «avente i connotati di stabilità e continuità, in ragione di un progetto di vita comune, dal quale discendano anche reciproche contribuzioni economiche, laddove emerga una relazione di continuità tra la fase “di fatto” di quella medesima unione e la fase “giuridica”».

La Suprema Corte ha quindi ratificato un dato statistico sempre più marcato, quello delle convivenze che precedono, oggi, quasi tutti i matrimoni.

Non è più tempo di lenzuola appese alle finestre per attestare la probità della sposa, di ‘mano’ chiesta al suocero e di scandalo se una coppia coabita senza il vincolo nuziale. Preistoria.

E’ un altro mondo ormai: sempre più spesso i figli nascono fuori dal matrimonio e la decisione di scambiarsi la solenne promessa, davanti al sindaco o al sacerdote, avviene solo in un secondo tempo.

Tutto giusto? Quasi.

Infatti, attribuire rilievo alla convivenza prematrimoniale ai fini della determinazione dell’assegno spettante ad un coniuge sdogana il riconoscimento del contributo al convivente. Che ad oggi non esiste.

Pensiamoci bene: chi non si sposa lo fa anche per evitare conseguenze economiche previste in caso di rottura matrimoniale. E’ una forma di libertà, una scelta consapevole. Ma se si fa rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta, ci incamminiamo su un terreno sdrucciolevole – e pericoloso - che sovverte i principi inveterati, ponendo le basi per introdurre una forma di sostentamento personale anche tra conviventi.

Con il rischio, tutt’altro che remoto, di annacquare tanto il matrimonio quanto la convivenza, con l’effetto di compenetrare queste due forme di unione fino a non distinguerle più.

E quando tutto è mischiato, confuso, uniformato, ci rimette la libertà del singolo.

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