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Hong Kong, così muore una città

Hong Kong, così muore una città

Leggi liberticide, rimpiazzo degli stranieri, arresti. Pechino vuole trasformare quella che era un’enclave democratica in Cina in un simbolo della sua supremazia. E ci sta riuscendo.


Nella notte di Shenzhen il grattacielo Ping An Financial Center, 115 piani, si illumina da cima a fondo con una scritta bianca in campo rosso: «Socialismo con caratteristiche cinesi». Che lo vedano bene, i vicini di Hong Kong, quell’immenso tazebao.

Hong Kong, ovvero «porto profumato», territorio formalmente autonomo dalla Cina secondo il principio «un Paese due sistemi», un passato da colonia britannica terminato nel 1997 a cui deve la particolare forma di democrazia di cui ha finora goduto, polo finanziario globale oltre che luccicante città piena di locali e vita. Ebbene, Hong Kong si sta lentamente spegnendo. Tra leggi liberticide, ganasce all’economia e severissime pene per chi dissente dai dettami del partito unico, il Dragone sta trasformando l’isola per renderla un simbolo della supremazia di Pechino sul modello occidentale.

«Hong Kong è un emblema della democrazia all’interno della Repubblica popolare e questo, per il presidente Xi Jinping, non è più accettabile» spiega Francesca Ghiretti, ricercatrice Asia all’Istituto affari internazionali. «È stato tollerato finché la crescita economica cinese era più importante di qualunque altra cosa, ma oggi la politica è tornata ad avere la priorità». E sta accadendo in questi mesi, approfittando di un mondo distratto dalla pandemia. L’ultimo atto è datato 27 maggio. In un solo giorno il Consiglio legislativo (cioè il locale parlamento monocamerale) ha approvato due pietre tombali sulla libertà finora conosciuta. La prima è una riforma elettorale che cambierà radicalmente il sistema politico di Hong Kong, permettendo alla Cina di controllarne definitivamente le elezioni. Quando si voterà, il prossimo 19 settembre, i parlamentari scelti dalla popolazione scenderanno dal 50 al 22 per cento (su 90 membri) e i candidati dovranno avere il placet della polizia statale che determinerà se sono degni di fiducia.Il loro grado di patriottismo invece sarà vagliato da una nuova commissione, incaricata anche di valutare i membri del Comitato che elegge il futuro governatore.

Lo Kin-hei, presidente del principale partito d’opposizione, il Democratic Party, ha detto recentemente che è «troppo presto» per decidere se presentarsi con propri candidati, ma si è rassegnato. «Non è così che si pacifica Hong Kong, e non ci piace. Ma è quello che è, e sta accadendo in questi giorni. Lo dobbiamo accettare come un fatto». «Beninteso, le elezioni continuano a esserci ma con questa modifica del sistema rappresentativo rimane soltanto una parvenza di democrazia che nel tempo andrà ulteriormente scemando» dice ancora Ghiretti. «Quello di Hong Kong è un soffocamento lento secondo uno schema collaudato: abbattere un pezzo alla volta, in modo che passi più facilmente il progetto di potere».

La seconda decisione presa il 27 maggio è stata di vietare le manifestazioni pro-democrazia che storicamente vanno in scena il 4 giugno, con una fiaccolata al Victoria Park, per commemorare i caduti di piazza Tienanmen (era il 1989, quando in migliaia morirono a Pechino chiedendo libertà). Nel 2020, con la scusa del Covid, si vietarono assembramenti. Quest’anno si è deciso che i partecipanti si sarebbero presi fino a cinque anni di galera, un anno per i promotori. Oltre a questo hanno schierato 7 mila poliziotti. Alla fine qualcuno comunque ha manifestato, munito di piccole luci, candele o cellulari accesi sulla funzione «torcia». Sei gli arresti, ma si rilascia in attesa del processo. «Pechino non vuole creare martiri», il commento di Ghiretti.

Poco rimane della «Rivoluzione degli ombrelli» del 2014, quando una massa di manifestanti chiese il suffragio universale, e poco anche delle proteste 2019-2020 contro una legge che costringe gli imputati di reati gravi all’estradizione in Cina continentale per il processo. Dimostrazioni accese, anche violente, che hanno offerto la giustificazione al Comitato permanente del Congresso Nazionale del Popolo, il massimo organo legislativo cinese, ad approvare il 30 giugno 2020 la «Legge sulla sicurezza nazionale», entrata in vigore a Hong Kong il giorno stesso, che in pratica estende nella regione autonoma i poteri concessi alle forze di polizia cinesi, per contrastare reati di terrorismo, secessione, sovversione e ingerenza straniera.

Da un anno qualsiasi atto contrasti il potere assoluto del governo di Pechino può essere considerato una diretta minaccia al Paese. Sono stati perquisiti appartamenti di liberi cittadini, eseguiti arresti per il possesso di bandiere e striscioni con slogan scomodi. Dall’inizio delle proteste almeno 9 mila persone sono state incarcerate, tra cui molti oppositori politici. Ma in questa legge c’è una vaghezza tale, ricorda Amnesty International, «che questi possono facilmente diventare reati di tipo “pigliatutto”, utilizzati in procedimenti giudiziari a sfondo politico con pene potenzialmente pesanti». Da un anno c’è una supervisione su quello che si dice e si fa a scuola, o nelle organizzazioni sociali, o sui media. Non è un caso se l’importante quotidiano South China Morning Post è stato costretto al cambio di proprietà perché ancora poco allineato (si veda l’articolo nelle pagine seguenti), o se il magnate e dissidente Jimmy Lai è stato condannato a venti mesi di carcere.

E le cose non miglioreranno. Liu Guangyuan, nuovo capo della diplomazia di Pechino a Hong Kong, appena insidiato ha promesso che la sua priorità numero uno sarà combattere le interferenze straniere con un’opposizione «più robusta». In questa operazione di soffocamento e rimozione, le autorità stanno anche cancellando la memoria di quanto è accaduto nel periodo delle proteste. La radiotelevisione pubblica di Hong Kong, Rthk, sta eliminando dai suoi archivi e da canali social come YouTube, i programmi dedicati ai movimenti per la democrazia.

«Da quando Xi Jinping è salito al potere, Pechino riscrive la storia cinese, ne reinventa l’identità» ricorda Ghiretti. «Non solo Tienanmen, ma molto più indietro: la rivoluzione culturale, le dinamiche della guerra civile, e ancora prima. Tutto per creare una narrazione della Cina come civiltà in continuum da 5 mila anni, con il diritto di rivendicare confini, compresi quelli nel Mar cinese meridionale, che non ha alcuna base nella realtà storiografica». E non è tutto. «Pechino sta deliberatamente affossando Hong Kong, che agli occhi del governo non può e non deve più essere vista come un’enclave del sistema occidentale in Cina» denuncia a Panorama R.R., imprenditore italiano che assiste ogni giorno ai cambiamenti della regione. «È in atto una sostituzione della classe dirigente straniera e in particolare occidentale con quella cinese. Inoltre vengono favorite altre zone per il business e il turismo, come l’isola di Hainan, che sta diventando un hub di successo totale». Non a caso quell’isola nel Sudest della Cina è stata lanciata come Free Trade Port, vi si facilitano scambi commerciali, investimenti, transazioni finanziarie internazionali per diventare una zona di libero scambio d’eccellenza.

«Pechino ci sta lavorando da anni» conferma Ghiretti. «Hong Kong è ridimensionata e messa in discussione come hub finanziario a favore di altri centri, per esempio Shenzhen. Le banche internazionali stanno rivalutando la loro presenza lì perché improvvisamente la città non è più il centro libero e liberale, anche dal punto di vista economico, che era prima, quando si pensava che la dimensione finanziaria avrebbe protetto l’isola da queste involuzioni autoritarie. E invece…».

In molti stanno pensando di andarsene. Il 42 per cento degli expat consultati in un recente sondaggio AmCham (Camera di commercio americana) esprime questo desiderio. Mentre, secondo quanto riporta il network Cnn, centinaia di migliaia di cittadini cinesi di Hong Kong si starebbero preparando a lasciare la regione magari approfittando dei tanti «visti» messi a disposizione dal Regno Unito. In due mesi ci sono state 34 mila domande. Un fenomeno che Pechino sta già cercando di fermare con una nuova legge sull’immigrazione che potrebbe anche fornire il potere di «divieto di uscita».

«It’s not Hong Kong anymore», non è più Hong Kong, ha detto il politico dissidente Sunny Cheung, appena 25 anni e già costretto all’esilio in una località segreta. «Non è più Hong Kong» commenta anche L.P., italiano che qui vive da vent’anni e chiede l’anonimato a Panorama. «Quando Regno Unito e Cina si misero d’accordo per la cessione, si concordò che fino al 2047 ci sarebbe stata autonomia da Pechino. Invece nell’ultimo anno ci si sente come di non poter più disporre appieno della propria vita. Sto seriamente valutando di mollare tutto. Peccato».

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