Da Omero al rock
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Maurizio Stefanini, Marco Zoppas, ‘Da Omero al rock’ - La recensione

Nell’ottobre 2016 il premio Nobel a Bob Dylan ha sancito l’ingresso del rock nella letteratura mainstream. Malgrado la riluttanza dell’interessato, nonostante le polemiche degli addetti ai lavori e i guai che attendevano al varco lo stesso entourage di Stoccolma, i labili confini tra poesia e canzone sono saltati definitivamente. La contrapposizione tra un genere letterario classico, puro, alto, incontaminato, e uno di serie B contaminato con la musica, è apparsa per quello che è: un colossale equivoco. Anche perché il rapporto tra letteratura e musica è antico come l’uomo. 

Canti, canzoni, Canzonieri

Alla ricostruzione del legame che Da Omero al rock (e viceversa) attraversa le epoche come un filo rosso nella storia dell’arte e del pensiero, è dedicato un volume ricchissimo di storie, suggestioni, rimandi, connessioni, provocazioni. Il Never Ending Tour di Bob Dylan in corso dal 7 giugno 1988, dicono gli autori Maurizio Stefanini e Marco Zoppas, fa di lui un contemporaneo Omero. Il cantore di una civiltà: la nostra. Dentro il suo linguaggio ibrido e visionario - che incorpora nel rock’n’roll la Bibbia, la poesia e la storia della letteratura - i posteri troveranno racchiusa l’essenza degli Stati Uniti d’America. Cioè i sogni e gli incubi di un’intera generazione. 

Prima dell’affermarsi della scrittura, la poesia era intimamente legata alla musica. Nella tradizione popolare il supporto musicale è sempre stato funzionale alla memorizzazione dei versi, fin dai poemi omerici e dalle grandi tragedie di Eschilo, Sofocle, Euripide. Nella storia della letteratura si conserva un’eco di quel binomio, per esempio nella suddivisione in canti della Divina Commedia, in capisaldi come la Canzone di Rolando e il Cantar del Mio Cid, fino ai Canti di Leopardi, al Canzoniere di Petrarca e a quello di Umberto Saba. Lo stesso Eugenio Montale, che aveva studiato da cantante lirico ed era stato critico musicale, sosteneva che fosse il suono la vera materia della poesia: “lentamente la poesia si fa visiva perché dipinge immagini, ma è anche musica: riunisce due arti in una”.

È solo rock’n’roll?

Stefanini e Zoppas si lanciano in una vertiginosa cavalcata nel passato col proposito di rintracciare le fonti letterarie - esplicite e non - degli aedi contemporanei, coloro che hanno convertito l’oralità degli antichi cantastorie ai ritmi del rock. I protagonisti sono numerosissimi, le connessioni strabilianti per qualità e quantità in uno sterminato arco spazio-temporale che va dall’antico Egitto alla Bibbia e al Vangelo, fonte di ispirazione per un Sessantotto libertario non-marxista, dal melodramma alla canzone d’autore, dal folk al rock anglosassone, con ampi excursus nel mondo ispanico tra la Cuba di Fidel e gli Inti-Illimani, l’Argentina e la Colombia di Borges e Garcia Marquez, il Messico di Paco Taibo e Carlos Santana, e addirittura un accenno all’India di Rabindranath Tagore. Data la vastità del repertorio, si sente la mancanza di un indice dei nomi che consenta di seguire le tracce di ogni artista citato nel libro.

Fra i mostri sacri del rock angloamericano spicca la triade formata da Bob Dylan, Leonard Cohen e Lou Reed, analizzati a partire dalla comune matrice ebraica, mai rinnegata nonostante le infatuazioni per il cristianesimo (Dylan), le filosofie orientali e la meditazione trascendentale (Cohen), la politica rivoluzionaria (Lou Reed). Affascinante è la rilettura dell’ultimo album del canadese (You Want it Darker), capace come il David Bowie di Blackstar di incorporare nella propria arte perfino il momento del trapasso. E poi l’oscuro, colto, dissoluto Nick Cave, le farneticazioni libertine del suo alter ego letterario Bunny Munro, Patti Smith ispirata da Rimbaud e Verlaine in Horses, le relazioni pericolose fra Jim Morrison e il dottor Freud, le misteriose connessioni tra gli ultramondi di Philip Dick e il John Lennon del White Album, l’onnipresenza di Shakespeare nei versi dei rockettari…

Dai trovatori alla scimmia nuda

Grande spazio è dedicato alla musica italiana, in particolare la stagione dei cantautori tardo-novecenteschi. In ordine sparso e non esaustivo: la discendenza pasoliniana di Francesco De Gregori e di molti altri fra cui Sergio Endrigo, le suggestioni filosofico-letterarie di Franco Battiato, la mistica di Yeats in Angelo Branduardi, le memorie del sottosuolo di Massimo Bubola, i concept album letterari di Edoardo Bennato, la virata “hegeliana” dell’ultimo Battisti con le visioni di Pasquale Panella, la lettura brechtiana dell’Itaca omerica da parte di Lucio Dalla, la questione privata tra i CSI e Beppe Fenoglio, il percorso del professor Vecchioni da Samarcanda a Robinson e a Jacopone da Todi, la galleria di citazioni in Museica di Caparezza. E ancora, le insospettabili fonti letterarie apparse al Festival di Sanremo da Volare di Modugno a Occidentali’s Karma di Francesco Gabbani, debitore per il testo a La scimmia nuda dell’etologo Desmond Morris.

La parte del leone la fanno due pesi massimi come Fabrizio De André e Francesco Guccini. Faber è stato un aedo con una dote eccezionale: ha saputo rielaborare divinamente, cioè annettere alle sue corde, materiali poetici e umani provenienti da svariate culture. A lui è dedicata un’accurata esegesi delle fonti, dai Vangeli apocrifi letti in chiave politica ai poeti maledetti, da Prevert e Villon fino a Edgar Lee Masters e Alvaro Mutis, con ricostruzione della discepolanza da Georges Brassens.

Anche Guccini è stato ispirato da un orizzonte letterario vasto ed eterogeneo: la Bibbia e Gozzano, Aristotele e Salinger, Borges e Manuel Vasquez Montalban, Flaubert e Cervantes, fino al movimento anarchico italiano di cui sono indagate le intime connessioni con La locomotiva. Per un ripasso dell’opera in versi dello scrittore modenese, che ha concluso la carriera musicale nel 2012 con L’ultima Thule, consiglio un libro fresco di stampa intitolato semplicemente Canzoni e curato da Gabriella Fenocchio, filologa e studiosa di letteratura italiana del Novecento. Ambito nel quale De André e Guccini hanno finalmente un posto di spicco.

Forse il rock è ulteriormente invecchiato entrando nel salotto buono, e i giovani fanno bene a ribellarsi a quel bizzarro dinosauro, simbolo della generazione dei padri. Eppure dopo il Nobel a Dylan, ribaltando la canonica prospettiva, Stefanini e Zoppas si chiedono se d’ora in poi “una poesia che non può essere musicata debba ancora essere considerata una poesia”. Poi estendono la provocazione al mondo della prosa, analizzando i contenuti di romanzieri contemporanei come Roth e DeLillo, Murakami, Rushdie, Houllebecq. Per scoprire che l’osmosi è già avvenuta, anche nell’altra direzione: se una volta erano i cantanti a plagiare i romanzieri, oggi avviene sempre più spesso il contrario.

Maurizio Stefanini, Marco Zoppas
Da Omero al rock
Il Palindromo
300 pp., 18 euro

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