Per anni sono stati parlamentari, ministri e persino presidenti del Consiglio. Poi, conclusi quei prestigiosi ruoli di governo, hanno trovato nuovi lavori altolocati e ben retribuiti. Spesso si tratta di poltrone in ex partecipazioni statali. O in aziende private dove potranno sfruttare al meglio i contatti e le amicizie coltivate ai tempi dei loro incarichi pubblici.
«Anche Giuseppe Conte ha iniziato a fare conferenze all’estero» maligna il più malevolo di tutti. Sopraffino conferenziere di una rinomata e munifica «culla del Rinascimento» come gli Emirati Arabi, Matteo Renzi prova a togliersi il macigno dalla francesina nera. «Non ho incassato né richiesto un euro» lo rintuzza il probo Giuseppi, capo dei Cinque stelle. Che rimarca l’atroce dilemma su cui l’emiciclo beatamente sorvola: «È legittimo che un parlamentare o un leader politico riceva compensi da Stati stranieri?». Lecito di sicuro, opportuno mica tanto. E che dire degli illustri ex ministri, sottosegretari e onorevoli che passano da un ruolo pubblico a un contiguo incarico privato? Gli inglesi le chiamano «revolving doors». I francesi «pantouflage». In Italia sono le ormai istituzionalizzate porte girevoli. Laute superpoltrone. Ultracomodi materassi in purissimo lattice. Ottenuti grazie ai trascorsi in parlamento, con cui molti fortunati continuano a interloquire.
Certo il Matteo d’Arabia ha fatto, come al solito, le cose in grande. Nel suo caso, politica e lobbysmo convivono nella stessa stanza, sigillata a doppia mandata. L’ex premier siede ancora a Palazzo Madama e guida un partito, Italia viva, con pochi voti ma sterminate ambizioni. Eppure, non si risparmia: fa parte del board del fondo arabo Future investment initiative institute. Ed è anche entrato nel cda di Delimobil Holding, società di car sharing italo-russa. Polemiche formidabili, dunque.
Lui glissa: «La legge me lo consente». Vero. L’Italia è uno dei pochi Paesi europei in cui le porte possono girare senza sosta. E Renzi resta inarrivabile. Tanti ex colleghi, compagni di partito e membri del suo governo, sono stati più morigerati. Lasciando lo scranno prima di accettare succose profferte, spesso da aziende parastatali. Quelle che hanno bisogno di retroterra politico. A partire da Leonardo, colosso di difesa e aerospazio partecipato dal ministero dell’Economia.
L’ultimo ad abbandonare Montecitorio per varcare il lastricato uscio, dopo trentennale carriera nelle istituzioni, è stato Marco Minniti, eterna colonna piddina. Cambio sincronico, il suo. Già parlamentare, plurisottosegretario e ministro dell’Interno con Paolo Gentiloni. L’11 marzo scorso si dimette da Montecitorio, causa incompatibilità con il nuovo, strategico, ruolo: la presidenza della Fondazione Med-Or, creata appunto da Leonardo. «Ponte attraverso il quale fare circolare idee, programmi e progetti», dal Mediterraneo al Medio Oriente. E chi meglio del Lothar dalemiano, che al Viminale s’è adoperato con le tribù libiche per frenare i flussi migratori. Uomo giustissimo nel posto giustissimo. Ma nel cda c’è un altro ex parlamentare, esperto di esteri e difesa: Alessandro Ruben, già sfortunato finiano e montiano, attuale marito della riottosa berlusconiana Mara Carfagna, ministra del Sud nel governo Draghi. E la gemella Fondazione Leonardo-Civiltà delle macchine? Niente paura. Anche in questo caso, allo sterzo c’è uno storico parlamentare di sinistra, Luciano Violante: già capo dei deputati diessini, Minniti compreso, e vicepresidente della Camera. Siede invece direttamente nel consiglio d’amministrazione della vecchia Finmeccanica Federica Guidi, imprenditrice con un turbolento passato da ministro dello Sviluppo economico nel governo Renzi. Si dimette nel 2016 per il coinvolgimento nell’inchiesta sugli impianti petroliferi in Basilicata del suo ex compagno, poi archiviato. Fatale è un’intercettazione tra i due. Guidi, che lamenta di essere trattata «come una sguattera del Guatemala», comunica il via libera a un emendamento che avrebbe garantito al congiunto subappalti milionari. Viene travolta dalle accuse: conflitto d’interessi. «Rispetto la tua scelta personale sofferta, dettata da ragioni di opportunità che condivido» infierisce Renzi. Che però la indica per Leonardo nell’aprile 2020, quattro anni dopo. Lasso di tempo adeguato, a onor del vero, per far sfumare eventuali commistioni.
Nelle stesse settimane Guido Crosetto, triumviro di Fratelli d’Italia, pianta il parlamento per la presidenza di Orizzonte Sistemi Navali, joint venture tra Fincantieri e Leonardo. Competenza conclamata, anche nel suo caso. Sottosegretario alla Difesa con Silvio Berlusconi, «il gigante di Marene» era già alla cloche dell’Aiad, agenzia che raduna le aziende dell’aerospazio e vanta come presidente onorario l’amministratore delegato di Leonardo, Alessandro Profumo. Talvolta le porte girevoli rischiano di mulinare anche al contrario. Il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, è capo in aspettativa dell’Innovazione tecnologica, proprio di Leonardo. Ruolo che potrebbe tornare a rioccupare terminata la parentesi governativa.
Anche lui, ex estimatore di Renzi. Come Claudio De Vincenti, ministro, viceministro e aspirante deputato del Pd. Da sottosegretario alla presidenza del Consiglio si prodigò per il famigerato acquisto in leasing da Etihad dell’Airbus A340-500, meglio noto come «Air Force Renzi». È rimasto nel ramo trasporti. Lo scorso aprile viene chiamato al comando degli Aeroporti di Roma, società dei Benetton che gestisce Fiumicino e Ciampino.
Lapo Pistelli, invece, ha un passato da fratello coltello dell’ex Rottamatore. Eppure, più volte deputato ed europarlamentare, è confermato nel 2014 viceministro degli Esteri, con delega al Medio Oriente. Curriculum perfetto. Nel 2015 saluta tutti e finisce all’Eni, dove adesso dirige gli Affari pubblici.
E nel cda del colosso petrolifero c’è anche la già renzianissima Ada Lucia De Cesaris, vicesindaco di Milano nella giunta di Giuliano Pisapia. Foltissima la pattuglia di vecchie glorie nel settore bancario e finanziario. Domenico Siniscalco diventa ministro dell’Economia nel governo Berlusconi. Si dimette a settembre 2005. Sette mesi dopo è vicepresidente Morgan Stanley. Nel 2017 viene citato in giudizio dalla Corte dei conti per la stipulazione di derivati con la stessa banca d’affari, mentre era direttore generale del Tesoro. Il caso è riaperto lo scorso febbraio. La Cassazione rigetta l’archiviazione. L’ipotetico danno erariale ammonterebbe a 3,9 milioni di euro.
Ma l’approdo più clamoroso rimane quello di Pier Carlo Padoan. Ha guidato il dicastero di via XX Settembre per oltre quattro anni, passando da Renzi a Gentiloni, per poi venire eletto a Palazzo Madama tra le file democratiche. Lascia a ottobre 2020 per entrare nel cda di Unicredit. Diventa presidente lo scorso aprile, quando si discetta di fusione con Mps, nazionalizzata nel 2017, proprio mentre è ministro Padoan. Atroce dubbio: sarà stato mica chiamato in piazza Gae Aulenti visto il pregresso con l’istituto di Siena?
Incantevole cittadina che è stata persino il suo collegio elettivo, poi mutuato, via plebiscitarie suppletive, da Enrico Letta. Ovvero il segretario del Pd, partito che ha sempre gestito la banca toscana come un feudo. Ma siede nel cda dell’istituto pure Roberto Rao, ex parlamentare Udc e portavoce di Pier Ferdinando Casini.
Anche la Banca popolare di Bari, ennesimo salvataggio governativo, beneficia dei servigi di un’altra vecchia gloria: la fu onorevole Pd, Cinzia Capano, indicata dal governatore pugliese, Michele Emiliano, di cui è stata assessore mentre lui era sindaco di Bari. Fuori quota assoluto è invece Franco Bassanini, fu deputato diessino e pluridecorato ministro, poi inarrivabile boiardo. Già presidente della Cassa depostiti e prestiti, è poi diventato presidente di Open Fiber, che sta realizzando la banda larga in Italia.
C’è poco da fare, insomma. La porta girevole, magari, tenta tutti. Ma nessuno riesce a guadagnare l’entrata come ex diessini, margheritini e piddini. Un’arte tramandata ormai di generazione in generazione. Poco più che quarantenne, Maurizio Martina, già segretario del Pd e poi ministro dell’Agricoltura, lo scorso gennaio rinuncia al seggio per fare il vice direttore generale della Fao.
Non si tratta di una lobby, certo. Ma senza quel glorioso passato avrebbe ottenuto l’incarico planetario? E l’ex ministro della Giustizia, ma anche di Esteri e Interni, insomma l’avvocato Angelino Alfano, privo dell’afflato governativo sarebbe entrato di volata nel più blasonato studio legale italiano, Bonelli Erede, fino a diventarne socio? Berlusconi, inclemente, lo definì «senza quid». Giudizio che però, con meno coloriture, ha riservato a tutti gli ipotetici eredi. Invece Alfano, abbandonata la politica, è subito rifiorito. Mettendo a frutto indubbie abilità.
Da luglio 2019 è pure presidente del Gruppo ospedaliero San Donato, holding della famiglia Rotelli che gestisce 19 ospedali, tra cui il San Raffaele di Milano. E la soave Giovanna Melandri, indimenticato ministro diessino della Cultura, sarebbe arrivata comunque a dirigere il Maxxi, Museo nazionale d’arte contemporanea romano, mentre era ancora onorevole?
Solo in pochi smettono di bramare. Ricordate il rubicondo Giuliano Poletti, ex ministro del Lavoro con Renzi e Gentiloni? Viene considerato il padre del controverso Job acts. Sembrava sparito. Poi, la scorsa estate, l’annuncio trionfale. Poletti viene eletto segretario del circolo Pd nel suo paese: Bubano, frazione di 1.300 anime di Mordano, alle porte di Imola. Tutti continuano a chiamarlo ministro. Lui va fiero dei suoi 150 iscritti e motteggia beato: «La passione non va in pensione». n
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