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Lights Out: terrore nel buio – La recensione

Warner Bros. Entertainment Italia, Ufficio stampa Warner Bros. Entertainment Italia
Al piccolo Martin (Gabriel Bateman) basterà la luce di una candela a fendere il buio?
Warner Bros. Entertainment Italia, Ufficio stampa Warner Bros. Entertainment Italia
Rebecca (Teresa Palmer) prova a salvarsi con un tubo al neon. La luce è la sua unica speranza...
Warner Bros. Entertainment Italia, Ufficio stampa Warner Bros. Entertainment Italia
Sophie (Maria Bello), con la sua follia generatrice d'orrore, accanto alla figlia Rebecca (Teresa Palmer)
Warner Bros. Entertainment Italia, Ufficio stampa Warner Bros. Entertainment Italia
La furia di "Diana" li terrorizza: così Rebecca (Teresa Palmer) cerca di proteggere il fratellino Martin (Gabriel Bateman)
Warner Bros. Entertainment Italia, Ufficio stampa Warner Bros. Entertainment Italia
Che cosa vede, o sente, Martin (Gabriel Bateman) dal suo letto?

Difficile da descrivere. Bisognerebbe vederla e più che altro evitare di incontrarla, soprattutto di notte. Si chiama Diana. Ma non è una principessa. E neppure una vecchia canzone di Paul Anka. È un mostro, invece. Generato dalla follia di Sophie, una madre che risucchia nel suo gorgo caliginoso e funesto il marito Paul che, appena entrato nella storia, ne fa subito le spese e i figli Rebecca e Martin cui fa vivere – e allo spettatore con loro – un incubo a cielo aperto.

Lights Out: terrore nel buio(sugli schermi italiani dal 4 agosto) è l’opera di prima di David F. Sandberg, regista svedese di indiscutibile stoffa, autore fino a ieri di numerosi cortometraggi tra i quali, appunto,  un Lights Out del 2013 capace di conquistare a tal segno James Wan (Saw, i due Insidious, i due Conjuring oltre Fast & Furious 7) da indurlo a produrre il film di oggi.  Che propaga vero terrore. Con uno sviluppo e un epilogo per nulla scontati, fuori dagli steccati psicotici dell’inesistenza e delle figure solo immaginarie.

Un mostro incontrollabile

L’identikit di Diana? Una vecchia conoscenza di Sophie, all’epoca della sua permanenza in una clinica psichiatrica. Esperienza per nulla costruttiva per l’una e per l’altra, se è vero, com’è vero, che la prima ne uscì carbonizzata dopo un elettro-trattamento spinto al diapason; e la seconda ne fu dimessa senza aver risolto le sue ossessioni. Anzi, con ogni evidenza, aggravandole e radicalizzandole fino a riproporre concretamente come sua segreta “amica” quella povera ragazza - dalla natura, purtroppo, malvagia -martoriata e uccisa in ospedale. Incontrollabile, adesso, anche per chi, come Sophie l’ha generata: è così che accade da sempre, in letteratura e nel cinema, a tutti i fabbricanti di “mostri”. O quasi.

Metà vampiro metà spettro

Dell’elemento primordiale di genere, il buio, vive, anzi si nutre Diana: materializzandosi con l’oscurità e scomparendo nella luce in uno spaventevole gioco di presenza/assenza. Metà vampiro metà spettro. Che s’accovaccia nella tenebra per sferrare i suoi attacchi ferini, deforme, alta, rostrata, gli occhi luminosi. Nera. Urlante, stridula, disumana. Protagonista di un horror secco e sibilante, capace di far schioccare a ripetizione la frusta della paura. Finalmente anche sui volti degli attori, specie Teresa Palmer nella parte di Rebecca e Gabriel Bateman in quella del suo fratellino Martin, tanto credibili da far sospettare che quella furia l’abbiano vista per davvero. Maria Bello è Sophie, sempre sospesa tra slancio materno e trance perversa. Billy Burke (il Charlie Swan della saga Twilight) è suo marito Paul dal destino infausto.  L’altro attore di riferimento è il buio, così denso, glutinoso e profondo da diventare personaggio. Padre e madre di tutte le paure.

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