La tortura di fare conversazione con chi si ama

La voce ci esce strana, come al professore di lettere di Argo il cieco di Gesualdo Bufalino: «Io mi sento la voce strana, come sempre con una donna. Lei pare uno zucchero ipocrito, un’ospite infida o malfida. “Un liquore, un nocino? Lo facciamo in casa.” Mai più, con queste vampe che mi vanno e vengono su e giù per le guance. Piuttosto, non so se darle del lei o del tu. Decise lei per il tu».

Affondiamo piano nel pantano del voler sembrare urbani, lucidi e finanche freddi, nel tentativo di non venire scambiati per obnubilati mentali in preda alle furie mitologiche dell’amore, come in un racconto di Alice Munro: «Per tutto il tragitto (…) si era ascoltata parlare con sgomento. Non tanto perché stesse ciarlando a vuoto – dicendo qualunque cosa le passasse per la mente: cercava invece di esprimere concetti che le parevano interessanti, o che avrebbero potuto esserlo se solo fosse riuscita a formularli. Ma queste idee probabilmente sembravano pretenziose, per non dire folli, snocciolate in quel modo. Del resto lei doveva assomigliare a una di quelle donne non disposte a rassegnarsi a una conversazione banale e decise a pretenderne invece una “autentica”».

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