Bersani, il trasformista, fa infuriare la base

La rivolta del popolo del web mette in mora i leader del centro e della sinistra che cercano di costruire un’alleanza elettorale. Su Internet, sui siti e nei social network, esplode la protesta delle “basi” contro i capi, contro le alleanze calate dall’alto, gli sposalizi contro natura, le alchimie opposte alle affinità elettive. C’è tutta una piccola nomenclatura di piccoli capi di piccoli partiti, che appartiene al passato e che cerca di restare in sella, di entrare o rientrare in Parlamento, di azzerare le differenze tra idee con l’unico obiettivo di occupare poltrone nel prossimo esecutivo.

Pier Luigi Bersani incontra tutti e apre le braccia a tutti, da Nichi Vendola ai socialisti, dalle associazioni parapolitiche del terzo settore ai cattolici, fino a prospettare futuri accordi di governo con l’UDC di Pier Ferdinando Casini. C’è un cambiamento di linguaggio significativo, nelle ultime uscite del segretario del Partito democratico. Improvvisamente, Bersani non si definisce più riformista, proprio lui che in passato qualche riforma in senso liberale l’ha pur fatta. Parlare di riformismo oggi può apparire troppo liberale, appunto, o anche troppo centrista, o perfino rigorista e teutonico. Meglio allora coniare un nuovo aggettivo e ripeterlo ogni giorno come un mantra che va bene a tutti, dai comunisti ai cattolici: progresso. Bersani è diventato progressista. Il “nuovo” partito che porterà al voto sarà il “partito dei progressisti e democratici”. Chi negherebbe di essere per il progresso? E, per di più, democratico? Forse, neppure Storace. Certo, non Vendola. Nel calderone ci si sta stretti: scomodi, ma ci si sta. Il guaio, per Bersani e gli altri, è che a non volerci stare, a non cadere più nella trappola delle parole, sono gli elettori, i cittadini, la base che le sue idee, le sue radici, la sua resistenza sagace a non farsi infinocchiare. Ecco allora che insorgono i peones (quelli veri) sui siti e social network dei vecchi partiti.

Non voglio morire comunista, presidente Casini, mai con Vendola!”, “L’accordo con PS e Sinistra e Libertà non è compatibile con i nostri valori più sacri, quelli non negoziabili, e in caso che l’inciucio si realizzi, anche se a malincuore, non voterò più UDC!”. Sul sito vendoliano, SEL, stesso tenore ma di segno opposto: “Casini e i pretoni da una parte, i socialisti dall’altra. Se non è così, meglio Grillo!”. “Assurda l’apertura all’UDC… Mi sembra solo un modo per garantirsi una delle tante poltrone in ballo”. Impietosi pure gli (ex) elettori del PD: “Non ce l’ha fatta Prodi, perché dovreste farcela voi?”. “Segreta’, sono confortato che escludi i neonazisti… per il resto c’è tutto”. E poi ci sono i fan di Tonino Di Pietro, che non vogliono accordi con Beppe Grillo (ci ha pensato il comico genovese a freddare le aperture dell’Italia dei Valori, comunque).

L’ultima trovata è quella di Paolo Ferrero, leader di Rifondazione Comunista (sì, esiste ancora negli scantinati della politica, e vorrebbe rioccupare scranni in Parlamento): un’alleanza con Di Pietro. Bisognerà pur ammettere che, al confronto, l’immobilismo del PDL è quasi più onesto, e la splendida solitudine del Movimento 5 Stelle rischia di fare ancora più proseliti in rete e nelle urne. Ancora non hanno capito, i segretari e capi e coordinatori e portavoce dei partiti e partitini della sinistra e di quel centro che strabicamente guarda solo a sinistra, che gli elettori non li seguono più nelle manovre di potere. Nella truffa delle parole.

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