Il presidente turco Erdogan si reca a Istanbul sul luogo dell'attentato separatista
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La nuova ondata di terrore a Istanbul

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Nella serata di sabato 10 dicembre a Istanbul due violente esplosioni hanno sconvolto l’area intorno alla stadio di calcio Vodafone Arena della squadra del Besiktas, provocando la morte di almeno 30 poliziotti e di 8 civili e il ferimento di circa 160 persone.

 La prima esplosione è stata provocata da un’autobomba che si è scagliata contro un posto di blocco delle forze di sicurezza a due ore dal termine della partita di calcio tra i padroni di casa e il Bursapor. La seconda è stata invece causata da un singolo attentatore che si è fatto saltare in aria subito dopo il primo attentato, quando si è visto circondato dai poliziotti.

 Ambedue gli attentati sono stati rivendicati dal TAK, i Falchi della Libertà del Kurdistan, una fazione scissionista ed estremista del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan messo fuorilegge dal governo turco.


I principali attentati nel 2016

Il 2016 è stato un anno particolarmente sanguinoso per la Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan, che non soltanto ha subito diversi sanguinosi attentati dinamitardi a opera sia degli indipendentisti curdi che dei jihadisti dell’ISIS – quest’ultimi rivoltatisi contro Ankara dopo essere stati inizialmente appoggiati in segreto nella lotta della Turchia contro il regime siriano di Bashar Al Assad – ma ha anche dovuto affrontare un tentativo di colpo di stato militare lo scorso 15 luglio.

 L’anno che si sta per concludere si era aperto il 12 gennaio con un’azione suicida rivendicata dallo Stato Islamico nella centralissima piazza Sultanahmet di Istanbul, meta tradizionale del turismo straniero, che aveva provocato la morte di 13 persone, 8 delle quali di cittadinanza tedesca. Successivamente, il 17 febbraio, nella capitale Ankara in un attentato di matrice indipendentista curda compiuto con un’autovettura esplosiva erano stati uccisi 29 militari e ferite altre 61 persone.

Istanbul, l'esplosione dell'autobomba; attentato | video


Il TAK era tornato in azione il 13 marzo con un’altra autobomba che sempre ad Ankara aveva causato l’uccisione di altre 37 persone. Nei mesi seguenti, attentati dinamitardi e azioni di guerriglia contro i militari turchi si sono susseguiti non solo nelle città ma anche nel sud est del Paese, ai confini con la Siria e l’Iraq, provocando decine di vittime.

 Per gli attacchi del 10 dicembre, secondo il vice primo ministro Numan Kurtulmus che nelle sue prime dichiarazioni ha subito attribuito la responsabilità ai curdi del PKK, sono stati utilizzati circa 400 chilogrammi di esplosivi.

La situazione politica

Questi ultimi attentati hanno scosso la Turchia in un momento estremamente delicato sul piano politico e istituzionale. Siamo infatti alla vigilia del varo definitivo della riforma costituzionale che sancirà il passaggio del Paese da un regime di democrazia parlamentare a uno di carattere spiccatamente presidenziale. Una riforma che dovrebbe aumentare in modo significativo i poteri di Erdogan e che sancirebbe, secondo i partiti e i movimenti di opposizione, una decisa svolta autoritaria aumentando in modo pericoloso i poteri di un presidente che finora si è dimostrato molto insofferente nei confronti degli equilibri istituzionali impressi dalla Costituzione laica e democratica voluta fin dal 1923 da Kemal Ataturk, il padre della Turchia moderna.

Dopo aver tentato di diventare invano il protagonista della lotta per la destituzione del regime siriano di Assad fin dal 2012, Erdogan ha dovuto affrontare un progressivo deterioramento dei rapporti con i partner esteri dovuto non soltanto alla deriva islamista imposta al suo Paese ma anche da una serie di mosse e di iniziative militari che un anno fa, con l’abbattimento da parte della contraerea turca di un jet russo, hanno portato la Turchia sull’orlo di una crisi molto pericolosa con il Cremlino.

La repressione anti-gulenista

Il fallito golpe del 15 luglio ha poi innescato una violenta repressione interna che ha colpito non soltanto i – presunti – responsabili diretti della sollevazione ma ha tentato di spazzare via dal panorama politico e sociale turco i seguaci dell’influente leader religioso Fethullah Gulen, esule da anni negli Stati Uniti, il cui movimento e le cui fondazioni culturali presenti in tutto il mondo sono stati giudicati dal governo di Ankara i veri ispiratori della rivolta militare.

La repressione anti-gulenista ha provocato finora l’arresto di migliaia di persone e il licenziamento o l’emarginazione di intere schiere di professori universitari, giornalisti, magistrati e, quello che è più importante, di militari e di appartenenti ai corpi di polizia e della sicurezza. Oltre 20.000 tra ufficiali e sottufficiali sono stati espulsi dalle forze armate, mentre altri 70.000 sono attualmente sotto inchiesta in quanto sospettati di adesione al movimento di Gulen.

La repressione e le inchieste del dopo golpe hanno indubbiamente indebolito le capacità operative delle forze armate, di quelle di polizia e dei servizi di intelligence e sicurezza. È proprio a questo indebolimento che può essere fatta risalire la relativa facilità con la quale i terroristi sembrano riuscire a operare nella Turchia di oggi.

 Le stesse misure repressive hanno contribuito all’isolamento internazionale della Turchia, le cui chance di adesione all’Unione Europea si sono fatte evanescenti e i cui rapporti con gli alleati della NATO sono sempre più problematici. La Turchia di Erdogan non solo non appare in grado di assumere l’ambito ruolo di potenza regionale, essendo finora fallita la sua strategia in Siria, ma è sempre più instabile sul piano interno.

 Le minacce del presidente turco all’Europa di aprire i rubinetti dei flussi migratori hanno complicato – anziché rendere più agevole – il cammino di Ankara verso Bruxelles, mentre l’ultimo attacco dei Falchi della Libertà del Kurdistan è li a dimostrare che la Turchia autoritaria di Erdogan sta diventano un luogo insicuro non solo per i politici democratici ma per tutti i suoi cittadini.

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