«La luna è una vescica di strutto»: il lirismo sadico e l’angoscia del lupo mannaro

La luna è terrificante, e non nel senso in cui si dice che «ogni angelo è terribile», citando Rilke. Solo nell’infanzia ci si può rendere conto di quanto sia pericolosa quella forza che la tiene inchiodata come alla punta di un compasso al vorticare invisibile del suolo, di cui non non si ha da piccoli un’idea molto precisa. Da bambini è facile accedere al disagio di consapevolezze che poi si perdono: per esempio, quella che esiste una forza che potrebbe farci cadere le mani a terra, se solo per un disguido di – vai a capire – dosaggio di tensioni, durezza di tiranti invisibili, i polsi ci cedessero; vagherebbero poi nello spazio fino a che quella stessa forza le attirerebbe sulla luna, che le assorbirebbe al suo giro perverso come una calamita. Da terra le guarderemmo, le nostre mani, prigioniere di quell’oggetto attraente e riottoso, pieno di materia imprendibile, subdolamente virtuale e bidimensionale.

In Infanzia berlineseWalter Benjamin racconta di quell’incanto maligno che i raggi del satellite proiettavano nella sua stanza, dandogli l’impressione che la terra, invece di essere inseguita dalla luna, ne fosse perfidamente «trasformata in suo vassallo».

«Questo mi faceva capire il pallido raggio che, facendosi strada attraverso le persiane, penetrava fino a me. Il mio sonno aveva un corso inquieto; la luna lo attraversava con il suo andare e con il suo venire. Quando c’era lei nella stanza ed io mi svegliavo, ne venivo estromesso, perché la stanza sembrava non voler ospitare nessuno all’infuori di lei».

L’angoscia che ne promanava si diffondeva sugli spazi e gli oggetti, sporcandoli del «già visto» (e chiunque abbia avuto un’infanzia sa quanto siano spaventosi i déjà-vu): «Perché tutti i luoghi di quella terra vicaria, in cui ero rapito, sembrava che un tempo diverso dal presente li avesse già preoccupati. Sì che ogni suono e ogni istante mi venivano incontro come duplicazioni di se stessi. E dopo che io mi ero abbandonato per un po’ a questa suggestione, mi avvicinavo al mio letto pieno di paura di trovarmici già steso».

Nelle ultime righe del racconto c’è la spiegazione del perché diffidare di lei, o quantomeno smetterla di affidare a lei le nostre ambasce romantiche di scemi del villaggio universale.

Quella stessa luna scoperta dal Ciàula di Pirandello, interrogata da Leopardi, del quale Michele Mari sospetta e prova nel meraviglioso Io venìa pien d’angoscia a rimirarti la lupomannarità, è protagonista di uno dei racconti più tristi e crudeli che abbia mai letto: ilRacconto del lupo mannaro di Tommaso Landolfi:

«L’amico ed io non possiamo patire la luna», inizia. È una notte di luna e il narratore è in cucina, «la stanza più riparata della casa»; le finestre sono tutte chiuse, e così pure battenti, sportelli e porte, perché non penetri un filo di quei raggi che «fuori, empivano e facevano sospesa l’aria». E tuttavia «sinistri movimenti» si producono dentro di lui, allorché l’amico entra all’improvviso «recando in mano un grosso oggetto rotondo simile a una vescica di strutto, ma un po’ più brillante».

L’oggetto è fastidiosamente reale: pulsa «alquanto, come fanno certe lampade elettriche», e appare percorso «da deboli correnti sottopelle», le quali suscitano «lievi riflessi madreperlacei simili a quelli di cui svariano le meduse».

Il narratore grida, ma si sente attratto suo malgrado «da alcunché di magnetico» «nel comportamento della vescica».

«Non vedi?», dice l’amico, «sono riuscito ad acchiapparla… La luna!»

Landolfi è definitivo: «Lo schifo ci soverchiava: la luna fra l’altro sudava un liquido giallino che gocciava di tra le dita dell’amico. Questi però non si decideva a deporla. – Oh mettila in quell’angolo – urlai, – troveremo il modo di ammazzarla!».

Perciò decidono di metterla nella cappa del camino, visto che  «abbandonata a se stessa, questa cosa schifosa farà di tutto per tornarsene in mezzo al cielo (a tormento nostro e di tanti altri)». D’altra parte non può farne a meno: «è come i palloncini dei fanciulli».

Devono liberarsi «del suo funesto splendore»: sperano perciò che la fuliggine «la farà nera quanto uno spazzacamino». Qualunque altra strategia sarebbe inutile: «non riusciremo ad ammazzarla, sarebbe come voler schiacciare una lacrima d’argento vivo».

Quello che segue è un capolavoro di lirismo sadico: nel momento in cui mollano la presa e lasciano risalire la luna nella cappa, quella, «viscida e grassa», comincia a sfrigolare (il fuoco è acceso) lasciando colare il suo succo giallognolo: «Udimmo per un momento lassù un rovellio, dei flati sordi al pari di trulli, come quando si punge una vescica, persino dei sospiri: forse la luna, giunta alla strozzatura della gola, non poteva passare che a fatica, e ci sarebbe detto che sbuffasse. Forse comprimeva e sformava, per passare, il suo corpo molliccio; gocce di liquido sozzo cadevano friggendo nel fuoco, la cucina s’empiva di fumo, giacché la luna ostruiva il passaggio».

Ma la gioia dell’assenza di luna dura poco: dapprima invisibile perché resa nera dalla fuliggine e ammaccata dalla violenza di quel crimine, «come il sole nero e notturno che nei tempi antichi attraversava il cielo a ritroso, fra il tramonto e l’alba», essa torna a mostrarsi, perché «il vento degli spazi e la sua corsa stessa l’andavano gradatamente mondando della fuliggine, e il suo continuo volteggiare ne riplasmava il molle corpo».

Come per Benjamin, il cui terrore – con cui la luna lo aveva «fasciato» nell’infanzia – proseguì per tutta la vita insediandosi presso di lui «eterno ed irreversibile», così per Landolfi c’è solo una constatazione finale: «contro la luna», anche se «slabbrata e fumosa, cupa da non si dire», non c’è niente da fare».

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