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Kobane e il cinismo turco-occidentale

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Kobane, la città al confine turco-siriano, è cinta d’assedio dalle forze dello Stato Islamico da molti giorni e rischia di capitolare. Gli attacchi aerei della coalizione internazionale in quest’area si sono rivelati tardivi e insufficienti, mentre i diecimila uomini dell’esercito turco al di là del confine osservano, senza colpo ferire, gli uomini del Califfato fare strage dei curdi rimasti a difendere il centro cittadino. Kobane è stata dunque abbandonata a se stessa, almeno fino a oggi. Per il Pentagono, infatti, la sua capitolazione non è un dramma e - fanno sapere da Washington - strategicamente la sua conquista è irrilevante. Ma com’è possibile? Non è questo un fallimento della coalizione stessa? Non è forse la difesa di Kobane un banco di prova per dimostrare la capacità di arginare il potere dei jihadisti sunniti?

 Qual è il fine della coalizione internazionale, se non sconfiggere sul campo il Califfato? E quale l’obiettivo vero della Turchia, che a parole dichiara la necessità di un intervento ma nei fatti assiste inerme alla sconfitta dei curdi asserragliati? Cinicamente, il presidente Erdogan, anche con il nemico alle porte, mantiene quel ruolo ambiguo che ha connotato la politica del governo turco degli ultimi mesi.

La Turchia e la questione curda
Forse Ankara segue ancora oggi l’adagio “il nemico del mio nemico è mio amico” e, temendo di più il rafforzamento dell’esercito curdo che potrebbe un domani guidare una rivolta nel cuore del territorio turco per ottenere l’indipendenza del Kurdistan, preferisce attendere l’indebolimento delle forze curde prima di farsi coinvolgere direttamente nel conflitto. Per la Turchia, infatti, l’obiettivo finale non è la sconfitta del Califfato quanto piuttosto ottenere la resa del regime di Bashar al Assad e mantenere lo status quo rispetto alla questione del Kurdistan. Il resto è da vedersi.


Turchia in fiamme, tra profughi e scontri di piazza

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Carri armati turchi su un collina poco distante dal villaggio di Mursitpinar

Turchia in fiamme, tra profughi e scontri di piazza

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7 ottobre 2014, manifestazioni di protesta contro Isis a Ankara

Turchia in fiamme, tra profughi e scontri di piazza

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Lanci di sassi contro la polizia durante le manifestazioni anti Isis a Istanbul

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Istanbul, manifestazioni anti Isis

Turchia in fiamme, tra profughi e scontri di piazza

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Manifestazioni contro l'Isis nella città turca di Diyarbakir

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Manifestazioni contro l'Isis nella città turca di Diyarbakir

Turchia in fiamme, tra profughi e scontri di piazza

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Manifestazioni contro l'Isis nella città turca di Diyarbakir

Turchia in fiamme, tra profughi e scontri di piazza

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7 ottobre 2014, manifestazioni di protesta contro Isis a Ankara

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Polizia e manifestanti durante le proteste anti Isis a Istanbul

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Lanci di sassi contro la polizia durante le manifestazioni anti Isis a Istanbul

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Gas lacrimogeni contro i manifestanti anti Isis a Istanbul

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Un autobus bruciato dai manifestanti nel quartiere di Gaziosmanpasa a Istanbul durante le manifestazioni contro l'Isis

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L'uccisione dell'ostaggio Henning che prima di morire ha detto: "pago il prezzo della decisione della Gran Bretagna"

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La città siriana di Kobane, assediata dall'Isis e difesa dai curdi

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Due bambini curdi in fuga dagli attacchi dei miliziani dell'ISIS in Siria arrivano a Suruc, nella provincia di Sanliurfa, sul confine con la Turchia.

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Nella base militare di Hammelburg, in Baviera, posano per una foto alcuni dei 32 combattenti peshmerga curdi giunti in Germania per una settimana di addestramento bellico, dopo cui faranno ritorno nel nord dell'Iraq per prender parte alla battaglia contro i miliziani dell'ISIS.

Turchia in fiamme, tra profughi e scontri di piazza

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Campo profughi ad Arbil, Iraq

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Un bambino siriano si disseta vicino a un valico di frontiera di Sanliurfa, sul confine tra Siria e Turchia. 140.000 persone in fuga dai villaggi curdi attaccati dai miliziani dell'ISIS hanno già attraversato il confine in cerca di salvezza in territorio turco.

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Un gruppo di attiviste di Femen manifesta a seno nudo contro i jihadisti dello Stato islamico davanti all'Arco di Trionfo a Parigi.

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014.

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014.

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014.

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014.

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014.

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014.

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014.

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014.

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014.

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014.

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014.

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014.

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014.

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014.

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014.

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014.

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014.

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Suruc, provincia di Sanliurfa, Turchia, 23 settembre 2014.

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Campo profughi nel nord dell'Iraq a Erbil

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Campo di rifugiati curdo a Arbil, Iraq

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Soldati iracheni cantano slogan contro Isis

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Portesta a Berlino contro Isis

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Milizie sciite del clerico Moqtada al-Sadr contro Isis

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Combattente del Pkk curdo contro Isis

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Milizie sciite a Amerli

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Un combattente sciita di Moqtada al Sadr contro Isis

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Un combattente sciita di Moqtada al-Sadr a Najaf in guerra contro Isis

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Combattente peshmerga a Mosul

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Uno degli ostaggi turchi nelle mani di Isis riabbraccia i familiari dopo la liberazione

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Dibis, Iraq, 15 settembre 2014.

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Dibis, Iraq, 15 settembre 2014.

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Dibis, Iraq, 15 settembre 2014.

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Dibis, Iraq, 15 settembre 2014.

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Dibis, Iraq, 15 settembre 2014.

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Dibis, Iraq, 15 settembre 2014.

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Dibis, Iraq, 15 settembre 2014.

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Dibis, Iraq, 15 settembre 2014.

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Dibis, Iraq, 15 settembre 2014.

Il Kurdistan, infatti, è un’area popolata da oltre 30 milioni di persone che si estende in un’area a cavallo tra Turchia, Iraq, Iran, Armenia e Siria, ma che nessuno di questi intende riconoscere ufficialmente. Essendo la maggior parte dei curdi, circa 12 milioni, concentrata nella Turchia orientale, si comprende meglio da dove vengano i timori di Erdogan, che non intende permettere alcuna cessione di territorio turco ai curdi, con una parte dei quali (il PKK) è in lotta da un trentennio.

La visione di Washington
In questi giorni, dunque, sia l’opinione pubblica turca sia l’intero Occidente s’interrogano sul che fare. E la risposta tarda a venire. Perciò, in attesa di una chiara strategia, possiamo solo analizzare le ragioni della fulminante ascesa dello Stato Islamico e rintracciare l’origine di questo male che, come una metastasi, aggredisce il grande malato mediorientale. A venirci in aiuto è una recente dichiarazione del vicepresidente degli Stati uniti d’America, Joe Biden, che ha indicato pubblicamente tanto i responsabili della genesi dello Stato Islamico quanto la natura dei suoi finanziatori.

 Il numero due della Casa Bianca, parlando alla John F. Kennedy School of Government di Cambridge, ha dichiarato che anche la Turchia, oltre al Qatar e agli Emirati Arabi Uniti ha fornito “un esteso e incondizionato sostegno finanziario e logistico ai combattenti sunniti”, nel tentativo di spodestare dal governo siriano il presidente Bashar al Assad.

 Biden ha sottolineato come Ankara, Doha e Ryad abbiano versato “centinaia di milioni di dollari e fornito decine di migliaia di tonnellate di armi a tutti coloro che lottano contro Assad”. Secondo il quotidiano turco Hurriyet, il vicepresidente si sarebbe lasciato sfuggire anche un’ulteriore confessione circostanziata: “Erdogan mi ha detto ‘Avevi ragione. Lasciamo che troppe persone attraversino il confine. Ora stiamo cercando di sigillarlo’”.

La cattiva politica dell’Amministrazione Obama
Che il vicepresidente sia tendenzialmente una figura di secondo piano nella catena di comando del governo americano, è cosa risaputa. Ma questi è anche la persona che, in caso di morte o impedimento del presidente, ne prende il posto. Dunque, anche le sue parole contano e vanno prese sul serio.

 Non a caso, Joe Biden si è dovuto prontamente scusare e ha fatto correggere al suo ufficio stampa il tiro di quelle dichiarazioni. Ma ormai la frittata è fatta. Chissà se i tre alleati della coalizione internazionale avranno gradito quelle incaute parole e se le ragioni della reticenza turca sono causa anche della scarsa fiducia nei confronti del piano americano per la Siria e l’Iraq.

 Certo, la politica estera dell’Amministrazione Obama si è dimostrata non all’altezza nel gestire la diplomazia internazionale, non solo sul fronte Mediorientale. Già il Segretario di Stato John Kerry - il corrispettivo del nostro ministro degli Esteri - ci ha abituato a ripetute gaffe di peso. Un merito che, del resto, condivide con tutto il suo staff (come non ricordare la sua vice, Victoria “Fuck the UE” Nuland?).

Le verità della guerra
Ma il punto è un altro. E cioè che Joe Biden ha ragione. La sua candida ammissione di fronte a giovani studenti americani è l’unica parola chiara che abbiamo sentito sinora sull’ascesa dello Stato Islamico e più in generale sulla crisi mediorientale. Qatar, Arabia Saudita e Turchia hanno davvero finanziato la jihad islamica. I primi due Paesi fornendo soprattutto risorse finanziarie nell’ordine di centinaia di milioni a numerosi gruppi in armi, mentre la Turchia permettendo ai volontari jihadisti di ingrossare le fila dello Stato Islamico tanto in Siria quanto in Iraq. E tutti loro, fornendo armi e sostegno logistico tanto agli uomini di Abu Bakr Al Baghdadi quanto alle altre fazioni ribelli che operano nel contesto siriano.

 Colpe che, va detto, questi tre Stati condividono con gli Stati Uniti, responsabili a loro volta di aver creato e istruito generazioni di combattenti che poi si sono ribellati loro, come vuole l’archetipo storico di quel Marco Giunio Bruto che si ribellò al padre putativo Giulio Cesare e che finì per pugnalarlo a morte.

 Eppure, non va dimenticato che oggi l’Alleanza atlantica, se vuole evitare di essere pugnalata dallo Stato Islamico, ha bisogno della Turchia molto più di quanto la Turchia abbia bisogno della NATO. Questo il presidente Erdogan lo sa e consapevolmente temporeggia, incurante della carneficina che avviene a meno di un chilometro dal suo Paese.

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