Jeremy Corbyn
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Jeremy Corbyn, il marxista della regina

Nel partito laburista inglese, un dimesso signore di 66 anni sta scatenando un terremoto. È Jeremy Corbyn, socialista vecchio stampo (nell’aspetto e nella sostanza)e candidato leader nelle primarie della sinistra. A temerne l’irruenza populista sono i suoi stessi compagni. Il partito «sta andando a occhi chiusi verso il dirupo e rischia di schiantarsi sulle rocce sottostanti» ha avvisato l’ex premier Tony Blair, pregando gli elettori di riflettere prima di votare: «Se il vostro cuore è con Corbyn, fatevi un trapianto».

La data che molti temono è il 12 settembre, quando gli elettori del Labour dovranno scegliere il loro leader tra Andy Burnham, Yvette Cooper, Liz Kendall, e, appunto, Jeremy Corbyn, l’attuale favorito. In parlamento dal 1983, Corbyn è sempre stato all’estrema sinistra del partito, un deputato poco noto fino all’inizio di giugno, quando si è gettato nella mischia con una candidatura last minute. Infiammando il dibattito. Le sue proposte anti-austerity esaltano la gente ma inquietano non poco l’establishment laburista. Per Corbyn «il livello di povertà nel Paese è disgustoso» e il Labour deve arginarlo.
E lui vuole farlo, come un moderno Robin Hood.

Abolendo i tagli alla spesa pubblica e aumentando le tasse, ma anche con proposte shock come promuovere la ri-nazionalizzazione dei trasporti e dell’energia perché «abbiamo pagato oltre 10 miliardi di sterline dalle privatizzazioni e le imprese hanno avuto solo profitti». La privatizzazione dell’Nhs, il sistema sanitario nazionale, e l’imposizione delle tasse universitarie fino a 9 mila sterline, sono le altre «ingiustizie» cui Corbyn vuol mettere fine, promettendo un sistema di istruzione gratuito, con borse di studio al posto dei prestiti universitari.


Altre chicche del programma: la riapertura delle miniere, che vede come un’opportunità per liberarsi dalla schiavitù del costo del petrolio; e le sue idee sul fronte internazionale. Strenuo oppositore della «politica di occupazione di Israele», si è incontrato più volte con membri dei movimenti islamici Hamas ed Hezbollah perché «non si può fare un accordo di pace se non si dialoga con tutti». Corbyn, per non farci mancare niente, si oppone anche ai bombardamenti contro l’Isis in Siria: «Morirebbero solo innocenti, esacerbando la crisi dei rifugiati. Dobbiamo invece interrompere il flusso di denaro e armi». Ritiene che il conflitto in Ucraina «sia da attribuirsi alla Nato e al desiderio degli Usa di espanderla a est. Anche se le azioni della Russia non sono state senza provocazioni». E si spinge fino a proporre l’uscita dalla Nato, rischiando di compromettere il Labour anche sul piano internazionale.

Non tutti, peraltro, lo osteggiano: 40 economisti (compreso un ex consulente della banca centrale) hanno scritto una lettera aperta per dire che quelle di Corbyn sono «teorie economiche tradizionali» e non di estrema sinistra. «Quaranta economisti non sono poi così tanti» avverte Matthew Williams ricercatore in scienze politiche a Oxford: «E quello che dicono bisogna prenderlo con le pinze.


Molti altri non la pensano affatto così. Corbyn fa parte di quell’ondata di politici populisti che stanno avendo successo in Europa perché dicono quello che la gente vuol sentire, anche se poi non risulta fattibile. Potrebbe davvero diventare il leader laburista, dal momento che è in testa a tutti i sondaggi.
Ma è improbabile che nel 2020 possa essere lui il premier perché il Labour non ha comunque chance di vittoria». E infatti il sindaco conservatore di Londra, Boris Johnson, ha invitato i suoi militanti a festeggiare: «Se vince Corbyn stappiamo champagne perché avremo la strada spianata»
Secondo Victoria Honeyman,  docente di scienze sociali e politiche all’Università di Leeds, «il partito laburista è ancora in difficoltà, ma può risollevarsi prima delle elezioni del 2020. A patto che il leader sia un altro. La leadership di Corbyn sarebbe una catastrofe».                  

Regno Unito, perché Jeremy Corbyn ha conquistato il Labour

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