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Iraq: la guerra dell'acqua dell'Isis

Ci avevano già a utilizzare l'acqua come strumento militare. Era l'agosto del 2014. I soldati di Al Baghdadi presero la diga di Mosul, la più grande di tutto l'Iraq, e minacciarono di sommergere la capitale e assetare le città circostanti. Dopo una battaglia lunga dieci giorni, furono i peshmerga curdi a riconquistare la diga, costringendo ad arrestrare i guerriglieri dell'Isis. Fu una battaglia decisiva per gli equilibri della guerra.

Questa volta però, dopo la presa della grande diga di Ramadi, la città caduta il 17 maggio scorso, la questione militare sul terreno si fa più complessa, scivolosa. E questo perché, con la chiusura delle porte dalle quale confluisce tutta l'acqua diretta alla provincia di Anbar e il conseguente abbassamento del livello del fiume Eufrate,  i guerriglieri possono muoversi con più facilità e aprirsi la strada vero Baghdad, il loro vero obiettivo. Un modo, insomma, per infiltrarsi con facilità nell'alvo prosciugato, lanciare attacchi e agguati, lavorare ai fianchi gli uomini dell'esercito regolare e le milizie sciite loro alleate. Se poi il blocco delle forniture idriche verso i villaggi disseminati lungo la strada verso Baghdad - in special modo le comunità di Kha­li­diyahHab­ba­niyah a est di Ramadi, tra le poche ancora con­trol­late da Bagh­dad - provocherà una catastrofe umanitaria, come sostengono un po' tutte le organizzazioni non governative presenti in Iraq, poco importa. La guerra dell'acqua, per i guerriglieri barbuti, è il mezzo per aprirsi la strada verso la capitale.


L'Eufrate rappresenta una sorta di confine naturale tra i territori occupati dai jihadisti, che controllano il bacino nord, e quelli ancora nelle mani del governo

L'Eufrate rappresenta - al momento - una sorta di confine naturale tra i territori occupati dai jihadisti, che controllano il bacino nord, e quelli ancora nelle mani del governo, le cui forze tentano di recuperare posizioni dal bacino meridionale, già costrette, dopo la chiusura della diga, a riposizionarsi per rintuzzare gli attacchi dei guerriglieri. Se prima i soldati regolari dovevano monitorare solo i ponti e alcune aree dove i miliziani avrebbero potuto scatenare gli attacchi, ora tutto il letto del fiume è attraversabile. Le aree da sorvegliare sono ovviamente molte di più.  A rendere più complicata la situazione ci sono poi i frequenti scambi di accuse diplomatici tra Washington e Baghdad che rendono l'idea di quanto sia diviso, in realtà, il fronte anti-Isis. Dopo la caduta di Ramadi, il segre­ta­rio alla Difesa  americano non aveva esitato a puntare l'indice contro le truppe ira­chene, accusandole di codardia, di essere scap­pate senza com­bat­tere di fronte all'avanzata dell'Isis. Un j'accuse, che John Kerry e poi  stesso Barack Obama hanno anche cercato di mitigare, ben coscienti dei problemi che l'assenza di un alleato motivato sul terreno - già falcidiato numericamente dalle frequenti diserzioni - potrebbe produrre per l'esito della guerra contro i barbuti. 

Bagh­dad, da parte sua, continua a criticare una stra­te­gia americana che si limita a raid aerei, adde­stra­mento dei sol­dati, invio di armi che sosti­tui­scano quelle con­fi­scate dallo Stato Isla­mico.  «La bat­ta­glia con­tro l’Isis deve essere vinta dal popolo ira­cheno. Abbiamo assi­stito a grandi per­dite all’interno del gruppo dall’inizio della cam­pa­gna, oltre 10mila mili­ziani [uccisi]. Ave­vamo detto che sareb­bero stati neces­sari tre anni, sono pas­sati solo nove mesi» ha dichiarato a Parigi Blin­ken, vicesegretario di Stato. Una dichiarazione improvvida che ha fatto infuriare il governo iracheno, ma che si limita oltrettutto a dire solo un pezzo di verità.  Se è vero che 10mila mili­ziani sono stati uccisi, molti di più ne sono arri­vati. Secondo un rap­porto del Con­si­glio di Sicu­rezza dell’Onu di fine mag­gio, negli ultimi nove mesi il numero di ade­sioni all’Isis è aumen­tato del 70%: sono almeno 25-30mila com­bat­tenti dispie­gati tra Siria e Iraq.

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