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Il flop del “partito arancione” di Ingroia e De Magistris

Appena qualche mese fa, appariva una macchina da guerra destinata a raggiungere almeno il 25 per cento dei voti, con il suo leader proiettato verso Palazzo Chigi. Ma adesso, il “partito arancione” di Antonio Ingroia (lanciato ufficialmente venerdì 21 dicembre) sembra piuttosto una floscia accozzaglia di reduci accreditada dai sondaggi intorno all’1-2 per cento. Ha perso per strada i pezzi più pregiati. Nichi Vendola ha scelto il Pd. La segretaria della Cgil Susanna Camusso ha mantenuto il legame con Pierluigi Bersani. E persino il leader Fiom Maurizio Landini, che molti vedevano a fianco di Ingroia come  una sorta di co-candidato premier, non solo ha fatto sapere che lui continuerà a fare il dirigente sindacale, ma ha precisato che la sua organizzazione «non appoggia nessuno: gli iscritti Fiom voteranno ognuno come gli pare».

Con Ingroia, rientrato in Italia dopo una breve vacanza in Guatemala, restano i sindaci di Napoli e Palermo, Luigi De Magistris e Leoluca Orlando, e un Antonio Di Pietro sfregiato dalle inchieste giornalistiche di Milena Gabanelli. E poi, Sabina Guzzanti e gli ultimi esemplari del comunismo italiano di osservanza cossuttiana: Oliviero Diliberto e Paolo Ferrero. Operazione indigesta persino per il Fatto, indicato dai maligni come l’organo ufficiale del nuovo partito. Ne ha preso ripetutamente le distanze. E giovedì 20 dicembre è arrivato a chiedersi: «Ma il Guatemala a che diavolo è servito, a parte i tre pittoreschi collegamenti con Santoro?»

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