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Tutta la verità sul concorso universitario di Conte

Tutta la verità sul concorso universitario di Conte

  1. Un’anticipazione esclusiva di Giuseppe Conte. Il trasformista, il libro che svela segreti e retroscena dell’irresistibile carriera del premier. Dalla vicinanza al Vaticano alle trame internazionali fino ai rapporti con i servizi segreti e gli 007 americani. Pubblichiamo un estratto che, grazie a documenti inediti, fa luce sull’esame per ordinario vinto del presidente del Consiglio e i rapporti con Guido Alpa, suo mentore e membro della commissione esaminatrice. Tra parcelle in comune, incroci professionali e sperticati giudizi.
  2. Il tête à tête tra Belpietro e il professore. «Cercavo la toilette in stazione e ho incontrato il futuro premier».

In anteprima digitale il primo capitolo del libro.


Quando gli danno dello «sconosciuto avvocato», Conte trasecola. «Ma se ho centinaia di clienti…» si sfoga con i collaboratori più fidati. Ed è pure diventato ordinario a soli 38 anni. Ha ragione da vendere, il premier. Nelle università italiane, storicamente asfissiate da baronie e familismo, si arriva in media a scalare il gradino più alto della carriera accademica quasi all’età della pensione.

I docenti di prima fascia con meno di quarant’anni, certifica l’ultimo rapporto del ministero dell’Istruzione, sono appena 20 su 12.975: meno dello 0,2 per cento. State allegri, italiani: in quel laghetto dalle acque cristalline ha nuotato anche l’anguilla di Palazzo Chigi, docente di Diritto privato all’Università di Firenze. Onore al merito: il figlio del segretario comunale di San Giovanni Rotondo ha tagliato il traguardo quasi imberbe, più rapido di un centometrista. (…)

La vera ascesa comincia quando, dopo aver vinto l’apposito concorso, ad aprile 1998 viene nominato ricercatore di Diritto privato a Firenze. Da quel momento brucerà tutte le tappe: in poco più di quattro anni scalerà ogni vetta accademica. A giugno 2000 vince il concorso per professore associato. Il posto viene bandito dalla Seconda Università di Napoli. Nella commissione ci sono Raffaele Rascio, della Federico II, il più prestigioso ateneo campano, e Giovanni Furgiuele, che sarà vicino di stanza di Conte all’Università di Firenze.

Rascio e Furgiuele, meno di due anni più tardi, si ritrovano di nuovo insieme in una commissione. Di nuovo nella Seconda Università di Napoli. Sempre per un concorso, ma da ordinario. E, ancora una volta, il prescelto è il giurista di Volturara Appula. Tra i cinque docenti che lo giudicano c’è anche Guido Alpa. Insegna Diritto civile alla Sapienza di Roma ed è un celebratissimo avvocato italiano.


Tutta la verità sul concorso universitario di Conte


La sua presenza in quella commissione cela un’accusa di favoritismo che il presidente del Consiglio rifiuterà con sdegno. Perché Alpa e Conte non sono legati solo da reciproca stima e sicura fiducia: i due nel 2002, poco prima di quel concorso, decidono di aprire insieme uno studio professionale. Anzi, una semplice condivisione di spazi, derubricherà il premier.

Di certo, però, a quel tempo, esaminatore ed esaminato già collaborano proficuamente. Come dimostra l’incarico affidato a entrambi il 29 gennaio 2002 dal Garante per la privacy, all’epoca Stefano Rodotà. E Alpa, ricostruisce La Verità, il 1° marzo 2002 è indicato commissario a Napoli: appena un mese dopo aver accettato quel mandato. Per farla breve: non c’è un conflitto d’interessi? Talmente plateale, assaltano i più barricaderi, da invalidare quel concorso?

Per scoprirlo, bisogna consultare i documenti ufficiali e incrociare le date. La prima cosa da fare è leggere tutti gli atti del concorso vinto da Conte. (…) Il 5 novembre 2019 scriviamo alla Vanvitelli. (…) Il 4 dicembre 2019 arriva la replica, con una telegrafica pec. Ci informa di aver chiesto preventiva autorizzazione «ai soggetti controinteressati» (….). Non resta che tentare l’ultima carta: quella della disperazione. Chiedere direttamente a Palazzo Chigi, raccontando le nostre tribolazioni.

Sorpresa. Qualche giorno più tardi, gli agognati documenti di quel concorso sono sulla nostra scrivania. Il primo foglio del fascicolo è una lettera d’accompagnamento inviata dalla Vanvitelli: «Si trasmettono le copie degli atti richiesti, relativi alla procedura in oggetto ». Il destinatario della missiva è la persona che ha richiesto quel plico. Sarà stato il premier, pensiamo subito. Le accuse di scarsa trasparenza, d’altronde, lo inseguono dal giorno della sua prima nomina. Invece, no: curiosamente, gli atti di quel concorso sono stati richiesti da Alpa. È a lui, quindi, che vengono spediti. Il professore, poi, deve aver girato quel malloppo cartaceo alla presidenza del Consiglio. È l’ennesima prova delle cointeressenze?

Lo studio legale in comune viene aperto all’inizio del 2002. Proprio mentre Alpa si appresta a giudicare il suo pupillo. In un’intervista al Secolo XIX, il luminare chiarirà: «La commissione era stata estratta a sorte». (…) Una modalità che, in effetti, allontanerebbe ogni malevola insinuazione. Peccato che dai documenti risulti il contrario. Alpa viene eletto, non sorteggiato. Ed è perfino il più votato tra i commissari: 54 preferenze. (…) E alle sue spalle, con 39 indicazioni, c’è ancora Furgiuele. Morale: Conte diventa ordinario anche grazie agli entusiastici giudizi dell’allora vicino di studio professionale e del venturo vicino di stanza in facoltà. I loro voti contano come quelli degli altri, certo, ma dai giudizi traspare una stima incondizionata nei confronti del giovane (lui sì…) Conte.

Dopo aver esaminato la produzione scientifica del discepolo, Alpa argomenta: «Le monografie e i contributi presentati, concernenti temi di notevole difficoltà, esprimono una solida preparazione tecnica associata a una vasta e brillante prospettiva storico-sociale e letteraria, un uso sapiente delle categorie dogmatiche e del metodo comparatistico ai fini dello studio del Diritto civile, e l’attenzione per una pluralità di interessi». Fino alla solenne indicazione conclusiva: «Il candidato merita un giudizio di piena maturità scientifica, sì da poter essere collocato in una posizione eminente ai fini del presente concorso». Non meno strabiliante il verdetto a cui giunge Furgiuele: «Sicuro e pieno giudizio positivo in ordine al particolarmente elevato livello di maturità scientifica».

Alle 9 e 30 del 13 luglio 2002, assieme agli altri tre membri, i due giuristi si ritrovano nel dipartimento di Diritto comune patrimoniale dell’Università Federico II. È il momento del verdetto. Dopo una breve discussione, si procede alle valutazioni. Quattro candidati non ottengono nemmeno una preferenza. Conte invece fa l’en plein: cinque voti su cinque. Con la stessa percentuale bulgara, viene dichiarato idoneo anche Carlo Venditti, figlio di Antonio, già ordinario di Diritto commerciale proprio alla Federico II di Napoli.


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Due plebisciti. Ciascun commissario, annota il verbale finale, prima del voto «dichiara di non avere relazioni di parentela o affinità fino al quarto grado con i candidati e che non sussistono cause di astensione di cui all’articolo 51 del Codice di procedura civile». E che cosa prevede la succitata norma? Il giudice deve astenersi dal giudizio se ha un interesse personale. Insomma, quando rischia di essere imparziale. È il caso di Alpa? L’Autorità nazionale anticorruzione, con la delibera 209 del 2017, chiarirà: nei concorsi universitari c’è l’incompatibilità esiste quando tra un commissario e un candidato esiste «una comunione di interessi economici» di particolare intensità e sistematicità. Ossia, quando c’è «un vero e proprio sodalizio professionale» (…). E Conte e Alpa, all’epoca del concorso, a loro dire condividono solo spazi comuni. Sarebbero gli antesignani dello spopolante coworking.

Spulciando tra gli archivi giuridici, si scopre però che, il 29 gennaio 2002, esaminatore ed esaminato ricevono un prestigioso incarico in comune: la difesa dell’Autorità per la protezione dei dati personali, al tempo guidata da Stefano Rodotà. Il presidente del Consiglio è allora un arrembante associato, mentre il suo esaminatore è già un accademico con i controfiocchi. Rodotà decide di assegnare a entrambi il ricorso: una controversia che vede contrapposta l’autorità da lui presieduta alla Rai. Viene dunque spedito il mandato. Gli avvocati sono due, ma l’indirizzo è soltanto uno: via Sardegna 38, Roma. È la sede condivisa inizialmente da mentore e allievo, prima del trasferimento in piazza Cairoli. Ma perché inviare un’unica lettera se, come spergiurano gli interessati, si tratta di incarichi distinti e non c’è nessuna associazione professionale tra loro? Il premier replicherà con sufficienza e ardore: così va il mondo degli studi legali. Basta chiedere a qualsiasi collega o praticante.

Ben meno usuale sembra il documento scovato dalla trasmissione televisiva Le Iene e pubblicato da La Verità. È un progetto di parcella datato 21 gennaio 2009. E riguarda proprio quella causa. La richiesta di fattura, firmata sia da Alpa che da Conte, viene inviata al garante della privacy. L’«importo complessivo richiesto», solo per il giudizio di primo grado, è di 26.830,15 euro. Il saldo, scrivono i due avvocati, potrà avvenire su un conto corrente aperto in una filiale genovese di Banca Intesa. È quello di Alpa. L’iban è il suo. E Conte? Non ha visto un euro. (…)


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ANSA
Il professor Guido Alpa, 72 anni. ANSA


Niente paura, però. Il premier si rifarà, seppur parzialmente, in seguito. Nei gradi successivi dello stesso ricorso saranno entrambi a fatturare. Lo confermano gli archivi del Garante, aggiornati al 12 dicembre 2019, che siamo riusciti a consultare: il 25 luglio 2018, mentre Conte è a Palazzo Chigi da quasi due mesi, riceve un compenso di 6.270 euro. I servigi di Alpa vengono invece retribuiti un po’ meglio, con 7.978 euro, il 27 novembre 2019: curiosamente, è proprio il giorno in cui incontreremo il premier a Palazzo Chigi. Nella stessa data, il noto cattedratico incasserà altri 9.707 euro, per una comune difesa assunta a ottobre del 2010. In questo caso, però, sarà il presidente del Consiglio a ottenere qualcosina in più: 9.979 euro. La cifra era stata saldata, pure stavolta, nell’estate 2018, mentre era già a Palazzo Chigi.

A questo punto, urge il pallottoliere: Conte e Alpa, negli ultimi anni, solo dall’Autorità per la protezione dei dati personali hanno avuto complessivamente otto incarichi. Sempre insieme. Cheek to cheek, guancia a guancia, cantava Frank Sinatra. Il primo affidamento, come abbiamo visto, è del 29 gennaio 2002. Il secondo risale al 2009. Un paio sono del 2010. Quattro vengono conferiti tra il 2011 e il 2016. E basta incrociare date e nomi, per scoprire che quel primo progetto di parcella potrebbe non essere l’unico a doppia firma. Il 16 dicembre 2014 il Garante liquida ai due professionisti i compensi per altri tre di questi otto mandati. Il primo pagamento è per una causa assegnata a entrambi il 14 gennaio 2009. Il secondo riguarda il protocollo 22471/76231 del 24 ottobre 2011. Il terzo è per una tutela conferita il 19 luglio 2012. Conte chiede complessivamente 9.335 euro. Praticamente la stessa cifra ottenuta da Alpa, che incassa 9.367 euro. Anche stavolta, quindi, le somme liquidate sono pressoché uguali.

Nulla da eccepire. Incuriosisce però la data. Le sei fatture, tre a testa, sono saldate il 16 dicembre 2014. Quindi, azzardiamo, probabilmente sono state presentate insieme, come avvenuto già nel 2009. Eppure, il premier sottolinea che gli incarichi sono distinti. Ma allora perché vengono liquidati lo stesso giorno? Si tratta di altre parcelle congiunte? L’elenco completo delle «tutele in giudizio» affidate dall’autorità, non lo specifica. In compenso rivela che Conte e Alpa sono due assi pigliatutto: su 13 cause conferite ad avvocati esterni negli ultimi anni, se ne aggiudicano, come abbiamo già visto, ben otto.

Ovviamente non ci sono solo le difese in nome e per conto del Garante. Servirebbe un elenco completo dei processi in cui i due hanno lavorato insieme. Ma nessuno dei due ci tiene a fornirlo. Così bisogna attingere alla banca dati delle sentenze, che però contiene decisioni emblematiche e di scuola, cioè utili ai colleghi avvocati. Una goccia nell’oceano. Eppure in quella goccia giuridica i nomi di Alpa e Conte si ritrovano insieme spesso. Nel 2006 rappresentano Craft, la società che ha brevettato i tutor, contro Autostrade, accusata di aver contraffatto il loro brevetto industriale. Nel 2013 difendono l’ospedale San Giovanni di Roma in una causa per la gestione del servizio di mensa. E nel 2014 i due si alternano nella difesa della Granarolo, il famoso gruppo alimentare.

Sono indizi di un «sodalizio»? Nemmeno per sogno: eravamo solo coinquilini, ripete Conte fino alla noia. (…) Ma c’è un particolare che complica il quadro. E non è affatto di scarso rilievo. Perché è lo stesso Conte ad aver seminato dubbi su dubbi. Nell’autunno 2013 invia alla Camera dei deputati il suo smisurato curriculum per concorrere all’elezione nel Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Il futuro capo del governo, lasciando poco spazio all’immaginazione, scrive di sé: «Dal 2002 ha aperto con il prof. avv. Guido Alpa un nuovo studio legale dedicandosi al Diritto civile, societario e amministrativo».

Così, il 18 settembre 2013, assieme ai membri laici delle magistrature speciali, il professore viene scelto per la rinomata carica. Si dimetterà a marzo 2018, soltanto dopo aver accettato la candidatura come ministro della Pubblica amministrazione in un ipotetico governo grillino. Ancora ignaro che il fato avrà in serbo per lui qualcosa di ben più sbalorditivo: la guida di due governi. E persino d’opposta foggia: il primo di centrodestra e il secondo di centrosinistra. All’epoca questa sembra però un’ipotesi fantascientifica, sebbene l’avvocato goda già di trasversali e insospettabili appoggi. Quel 18 settembre 2013, oltre ai 5 Stelle, lo sostengono pure i futuri alleati democratici (…).

Nell’aula di Montecitorio, in quella tiepida mattina di fine estate, siedono 417 onorevoli: 383 votano a suo favore. Un trionfo. Solo che, in mezzo allo stuolo di referenze protocollate alla Camera, c’è n’è una che rischia di mandare la sua carriera a carte quarantotto: lo studio aperto insieme ad Alpa. È vero? O magari è una millanteria, come quei neolaureati che imbellettano i propri trascorsi per impressionare i recrutatori. In questo caso non si tratterebbe di un’innocente bugia. C’era in lizza una poltrona pubblica. Giuridica, per di più: la nomina nell’organo di autogoverno della giustizia amministrativa. Conte ha gonfiato il suo curriculum? È una delle domande che gli abbiamo rivolto a Palazzo Chigi.

«Cercavo la toilette, ho incontrato Conte»

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Ansa

Capitolo I: Il giorno in cui il professore divenne premier

«Mi dicono che lei sta scrivendo un libro contro di me.» La telefonata è partita dal cellulare di Rocco Casalino, il portavoce di Palazzo Chigi. Mentre rispondo, non immagino certo che mi sarei ritrovato a parlare con Giuseppe Conte. «Il premier vuole ringraziarti per aver pubblicato su “La Verità” una sua intervista» annuncia Rocco, prima di passarmi il presidente del Consiglio. Una cortesia, penso, in linea con lo stile del professore di Diritto prestato alla politica, anzi ai 5 Stelle. Ma capisco subito che le parole del capo del governo hanno un altro obiettivo: sapere se è vero quello che si dice in giro. Da giorni, Le Iene e «La Stampa» fanno rimbalzare una voce nel nostro piccolo mondo antico di cronisti: sta per uscire un libro bomba su Giuseppe Conte.

Ora, io non so se quelle che leggerete siano le notizie bomba che cercavano di scoprire i colleghi giornalisti, nella speranza di bruciarci sul tempo. So però che il pomeriggio dell’8 novembre 2019, il presidente del Consiglio mi chiama per reiterare con voce flautata ciò che in qualche modo ci ha già detto nell’intervista concessa a Maurizio Caverzan per il nostro giornale. Occhio a quel che scrivete. Oltre che capo del governo sono un avvocato, le citazioni in giudizio sono il mio pane quotidiano. La telefonata del professore con la pochette, il premier dal baciamano perfetto, l’uomo che ha un vestito di sartoria per tutte le stagioni, non è una minaccia. È solo una precisazione. Quasi un anticipo di rettifica. Per dirla in termini legali: la chiamata è una specie di diffida, un invito a non pubblicare, o per lo meno a pubblicare con cura. Gli argomenti che riguardano il premier, il presunto conflitto di interesse e la sua inarrestabile ascesa, sono pericolosi. Da maneggiare con cura. Chi sbaglia, rischia grosso.

Al preavviso di citazione, rispondo ovviamente con lo stesso garbo usato da Conte: «Presidente, non stiamo scrivendo un libro contro di lei, ma su di lei. Fino a due anni fa lei era un illustre sconosciuto, un ignoto docente universitario, anche se già ben inserito nel mondo della giustizia e del potere. Oggi è uno degli uomini più potenti del paese, a capo di un governo di grandi intese, soprattutto estere. Ed è pure responsabile diretto dei servizi segreti. Per chi fa il nostro mestiere, raccontarla è un dovere».

La risposta non deve averlo entusiasmato. Convinto di non essere stato chiaro, a questo punto il professore di Volturara Appula, docente dal linguaggio volutamente paragiuridico e parapolitico, diventa più esplicito: «Si sono scritte tante cose imprecise e non vorrei che altre se ne scrivessero. Capisco che ragioni politiche inducano alla critica, ma gli insulti no». Non so perché Conte usi questo sostantivo: insulti. Forse reputa offensivo che qualcuno scandagli la sua vita privata e la sua carriera universitaria. O forse ritiene che le critiche alla sua persona siano di per sé un oltraggio. Sta di fatto che, al garbo del capo del governo, contrappongo medesima grazia: «Presidente, se avrà la pazienza di riceverci, verificheremo con lei le informazioni, perché non è nostra abitudine insultare nessuno, figurarsi lei». E così mi congedo, promettendo di richiedere un incontro per chiarire i passaggi di una carriera strepitosa, che da un paesino della Puglia ha portato un riservato professore a trasformarsi nel più scaltro dei politici. Tanto scaltro da aver messo tutti nel sacco, nemici e amici.

Il duello con l’avvocato del popolo, cominciato al telefono, era dunque rinviato alle prossime settimane. Antonio Rossitto e io avremmo messo sul tavolo le nostre carte, chiedendo a Conte chiarimenti su certi passaggi della sua storia, presente e passata. Su quella carriera costruita con tanta maestria e altrettanta fortuna.

Ma prima di arrivare all’incontro con Conte e alle domande che gli abbiamo rivolto, devo raccontare quando ho conosciuto il futuro presidente del Consiglio. Ovvero, quando ho avuto la ventura di trovarmi davanti il “professor Nessuno”, come lo appelleranno i giornali, in procinto di diventare qualcuno. La colpa è di quel vecchio brontolone di Giampaolo Pansa, il maestro di tutti noi cronisti di cose politiche. Dovete sapere che a maggio del 2018, dopo la vittoria dei 5 Stelle e della Lega, l’autore del Bestiario d’Italia diventa una pentola a pressione che rischia di esplodere.

Il trionfo dei partiti più antisistema non lo fa dormire di notte. È preoccupato per le sventure che figuri come Di Maio e Salvini potrebbero causare all’Italia. Dei due, detesta in particolare il capitano leghista, che non manca mai di attaccare ogni sabato su «La Verità», il giornale di cui sono direttore, prendendo a pretesto ogni cosa. Una volta è la ciccia debordante del futuro ministro dell’Interno. Un’altra è la barba mal curata inadatta a un leader, o la camicia fradicia di sudore indossata in uno studio televisivo senza aria condizionata. Salvini è la bestia nera del Bestiario. La faccenda rischia di annoiare, più che i lettori, lo stesso Pansa. Una settimana sì e l’altra pure, minaccia di interrompere la rubrica. Così per addolcirlo, come facevo ogni volta che lo sentivo sulle spine, decido di andarlo a trovare.

Pansa vive in un paese sperduto della Toscana. Da Milano, serve un viaggio in treno fino a Firenze e poi un prosieguo in auto per un altro paio d’ore, su strade deserte e contorte che attraversano la campagna della Val d’Orcia. Il pranzo è veloce e il discorso laconico, tipico dello stile di Giampaolo. Chiuso l’argomento e rabbonito il domatore del Bestiario, rifaccio il viaggio all’incontrario: due ore di macchina più due ore di treno, con sosta nella sala d’attesa del Frecciarossa, a Santa Maria Novella. E proprio qui, mi capita di conoscere Giuseppe Conte, poche ore prima che diventasse presidente del Consiglio.

A dire il vero, cercavo la toilette per problemi idraulici. Mentre mi avvio in tutta fretta verso il bagno, mi scappa però l’occhio su un signore: in piedi, appoggiato al bancone della lounge, sfoglia una copia del «Corriere della Sera». Ha gli AirPods alle orecchie, le cuffiette senza fili che si usano con l’iPhone, ma quando lo saluto dicendogli «Buongiorno professore» si gira di scatto. Non l’avevo mai visto, se non in tv: il giorno in cui s’era affacciato nella sala del Quirinale, appena ricevuto da Sergio Mattarella l’incarico esplorativo per formare un nuovo governo. E poi quando, da quella stessa sala, aveva comunicato di rimettere il mandato dopo il veto del presidente della Repubblica (e dell’Europa) su Paolo Savona ministro dell’Economia.

Dal vivo sembra un po’ più basso dell’uomo apparso in televisione, ma la pochette è la stessa e la flemma pure. Quel giorno sta rientrando a Roma, dopo una lezione all’università. Sembra già destinato a ritornare nell’anonimato da cui è uscito all’improvviso grazie a Luigi Di Maio, che lo ha scelto per diventare premier di un esecutivo con la Lega. Lui stesso pare rassegnato a una carriera politica stroncata sul nascere. Anzi, prima ancora di nascere. Infatti, dopo avermi riconosciuto, comincia a lamentarsi di come la stampa lo ha maltrattato in quei pochi giorni da esploratore di governo. Passato ai raggi X manco avesse qualcosa da nascondere. Il trattamento,evidentemente, lo ha lasciato tramortito. Non si dà pace d’essere stato rivoltato come un calzino. In particolare, l’ha colpito la faccenda del suo curriculum «gonfiato»: così lo definisce tutta la stampa di sinistra che non vuole un governo 5 Stelle-Lega. E poi le tasse non pagate, che gli sbattono in faccia quasi fosse un mezzo imbroglione.

Cerca comprensione, quasi conforto. Vuole sentirsi dire che non ha fatto nulla di male. È vero, si difende, tra le esperienze accademiche ha citato anche i soggiorni brevi in giro per il mondo, ma si tratta di viaggi più che studi. Peccatucci veniali, suvvia. Soprattutto, gli dispiace però di passare come una specie di evasore fiscale: un furbo che dimentica, spesso e volentieri, di pagare le tasse. «Ma io sono sempre impegnato fuori casa» chiarisce. «Le lettere dell’Agenzia delle entrate si sono accumulate.» Cerca di spiegami perché il fisco, lamentando i mancati pagamenti, ha messo le ganasce fiscali a un suo immobile. «Quando me ne sono accorto ho saldato tutto, mettendomi in regola con l’erario.» Il senso è chiaro: è stato un errore dovuto alla lontananza da casa, ma poi ha rimediato. Lui è vittima di un sopruso. Non di Equitalia, ma dei cronisti. Sui suoi trascorsi la «vil razza dannata» non ha mostrato alcun riguardo, scavando con ferocia.

«È la stampa bellezza, e tu non ci puoi fare niente» gli faccio capire, pur senza usare la frase di Humphrey Bogart. Il futuro presidente del Consiglio, appreso che il trattamento non ha nulla di personale, non sembra sollevato. Ha l’aria del cane bastonato, di chi si rende conto di aver avuto la fortuna a portata di mano e se l’è vista fuggire. Guardandolo, certo non immagino cosa stia per succedere di lì a poche ore. Quell’uomo abbattuto appare rassegnato a dividere il suo tempo tra gli studenti universitari e lo studio professionale specializzato in pareri legali. Invece, di lì a breve, diventerà presidente del Consiglio.

Il treno che Giuseppe Conte sta per prendere non è il Frecciarossa, il convoglio che lo porta avanti e indietro fra Roma e Firenze. È il treno della vita: un convoglio che lo sta per condurre al vertice del paese. A sedersi al tavolo con grandi della terra, come Donald Trump, Angela Merkel ed Emmanuel Macron. L’anonimo professore, che in quella sala d’attesa nessuno pare riconoscere, è destinato al grande viaggio.

Mentre il futuro avvocato del popolo si lamenta per il trattamento ricevuto dalla stampa, Carlo Cottarelli getta infatti la spugna. È il tardo pomeriggio del 31 maggio 2018: anche l’altro professore a cui Mattarella ha affidato l’incarico esplorativo, dopo la prima rinuncia di Conte, comunica al presidente della Repubblica d’aver fallito. Non è riuscito a trovare una maggioranza disposta a votarlo. Il governo tecnico non c’è. L’ex direttore del Fondo monetario internazionale passa la mano. Dunque si riaffaccia la strana alleanza gialloverde, unico incastro possibile per far nascere un esecutivo.

Non so quando Conte abbia ricevuto la chiamata del Colle: se subito dopo il nostro colloquio nella saletta della stazione di Firenze o mentre è in viaggio per tornare a casa. In serata però corre già al Quirinale. Davanti alle telecamere, fa il trionfale annuncio: accetta l’incarico di formare un nuovo governo. Da abbacchiato che era fino a poche ore prima, sullo schermo televisivo appare giulivo.

L’avventura di Giuseppi è iniziata. Sarà il premier più trasformista della storia. Una specie di Fregoli della politica. Be’, credo allora che sia arrivato il momento di iniziare il libro su Conte. Cominciando da quando, passati alcuni mesi, mi invita a Palazzo Chigi. Mario Giordano deve intervistarlo per il nostro quotidiano. E il premier vuole che anch’io partecipi all’incontro.

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