A un anno dall’inizio della pandemia emerge chiaramente che il premier e i suoi più stretti collaboratori non sono stati all’altezza del loro compito. Minimizzando l’impatto del virus su popolazione ed economia. E glorificando il proprio operato. Ma l’Italia ha solo record negativi in Europa: per morti, tamponi e ristori alle imprese.
Siamo prontissimi». La prima autocertificazione farlocca viene esibita il 28 gennaio 2020. Il virus cinese incombe. Giuseppe Conte, impeccabile e altero, dal salottino progressista di Lilli Gruber giura ai telespettatori: «Siamo prontissimi. L’Italia ha preso misure cautelative all’avanguardia rispetto agli altri. Abbiamo adottato tutti i protocolli di prevenzione possibili e immaginabili». Il peggiore anno della nostra vita è cominciato con una gigantesca turlupinatura catodica, per proseguire con una sarabanda di imposture.
Ma quell’esordio è stata una primizia. Anzi una primula, come la forma dei gazebo dove somministreranno i vaccini. Il premier che declama impareggiabile solerzia, mentre il governo non alza un mignolo. Protocolli per gli ospedali, dispositivi di sicurezza, terapie intensive: niente di niente.
Dodici mesi più tardi, nella lotta alla pandemia l’Italia vanta tre record: morti per abitante, tasso di decrescita del Pil e balle pro capite. Eppure, eravamo «prontissimi». Tanto che nel mese che segue quell’intemerata, con cadenza settimanale, Conte reitera: «Situazione sotto controllo». Ma la catastrofe si avvicina. E il 9 marzo 2020 arriva la timida concessione: «Adesso è difficile fare previsioni, perché siamo di fronte a un virus nuovo». Per fortuna, ci sono i giallorossi. «Possiamo parlare di modello italiano non solo per il contenimento del contagio sul piano sanitario, ma anche per la politica economica» si compiace il presidente del Consiglio. «Non si combatte un’alluvione con gli stracci e i secchi. Abbiamo costruito una vera e propria diga protettiva per famiglie, imprese e lavoratori. Vogliamo che l’Europa ci segua».
Angela Merkel ed Emmanuel Macron scansatevi. «Rifarei tutto allo stesso modo» dichiara Conte a El País. Infallibile, solerte, sincero. «Non lasceremo indietro nessuno» promette intanto. Il decreto Liquidità sprigionerà «una potenza di fuoco senza precedenti» per salvare le aziende in crisi: 400 miliardi, che diventano 750 con il Cura Italia. Com’è dunque possibile che i malcapitati vedranno, mesi dopo, una mancetta? Perché quella «potenza di fuoco» equivale solo al fondo di garanzia statale per le banche. Fantamiliardi.
Eccolo il modello tricolore. Quello che frau Angela e monsieur Emmanuel si affannano invano a copiare. «Se ne parla in tutto il mondo» rivela Giuseppi. «Da parte dei vertici delle istituzioni europee è stato riconosciuto il ruolo centrale che l’Italia ha avuto in questa emergenza: in prima linea, indicando anche agli altri la via da percorrere». Conte parla. Gli impreparati colleghi del G20 prendono appunti.
Alla vigilia della Fase 2, il 21 aprile scorso, continua a indicare la strada: «Il governo punta al rafforzamento della mappatura dei contatti e della teleassistenza con l’uso di nuove tecnologie». Ovvero, l’app Immuni. Sei mesi più tardi, arriva lo sbalorditivo saldo: 1.200 segnalazioni su nove milioni di utenti. Ma il premier spara: «Il sistema di tracciamento funziona bene». Va ancora peggio quando si avventura nello specifico: «In Italia sono stati fatti 3 milioni 171 mila 719 tamponi» comunica a maggio. «Collocano il nostro Paese al primo posto. Agli amanti della statistica dico anche che si tratta di 5.134 tamponi per 100 mila abitanti». Ed eccoci qua. Amanti della statistica e allergici alla smargiassata, siamo corsi a verificare: in quella data, l’Italia non compariva nemmeno nelle prime dieci posizioni, preceduta perfino dalla Lituania.
Del resto, per il giurista di Volturara Appula la verità è sempre stata un concetto un po’ lasco. Mentre fa il suo trionfale ingresso a Palazzo Chigi, nel giugno 2018, si scoprono un curriculum sovrabbondante, misteriosi studi all’estero, una fitta e proficua collaborazione con il suo mentore, Guido Alpa, derubricata a sporadica e insignificante. Insomma, da professore universitario prometteva. Ma da premier ha certamente concesso il meglio, al di là di ogni aspettativa. Dopo la prima ondata del virus, una panzana via l’altra, a vederlo così suonato e fanfarone, sembra già l’ex pugile Artemio Altidori, alias Vittorio Gassman, dei Soliti ignoti.
Ma il peggio deve ancora venire. Il 5 agosto scorso, sicuro di aver stremato il virus a furia di ciance, conclude: «Io lo so che non avremo nuove chiusure, che non rischiamo nuovi lockdown. Siamo tranquilli perché abbiamo creato una rete sanitaria efficace ed efficiente». Sì, il peggio è passato. E mentre il premier fa l’occhiolino, i vacanzieri prendono d’assalto spiagge e locali danzanti. «Il governo non ha mai autorizzato l’apertura delle discoteche» dice però Conte al ricrescere dei contagi. Colpa delle regioni indisciplinate, altroché. Mica del governo che, con Dpcm dell’11 giugno e successivi, concedeva la parziale ripresa.
La situazione, però, resta sotto controllo. «Non ci troveremo più ad affrontare un lockdown generalizzato. Ci siamo strutturati con un sistema di monitoraggio che ci permetterà di intervenire in modo mirato e circoscritto» ripete il 6 settembre 2020. Già: quella sensazionale capacità di anticipare il virus che, dagli ospedali alle scuole, solo gli italiani hanno avuto la fortuna di testare. Tutto sotto controllo, per carità. «Dobbiamo scongiurare un altro lockdown nazionale, per questo rimaniamo vigili e pronti a intervenire dove necessario». Non c’è nulla da temere. Anche quando riannuncia le serrate generali, il 25 ottobre scorso, Conte non ha dubbi: «Prendiamo questi provvedimenti oggi per riuscire a tornare ad avere la situazione sotto controllo fra qualche settimana». Fino alla più dolce delle dolci carezze: «Passeremo un Natale sereno» assicura Babbo Giuseppi. E a chi è stato costretto a chiudere un’altra volta, giura: «Ristori in tempi record». La notte del 18 dicembre 2020 riappare però in stato confusionale in tv. Ammette che purtroppo non è riuscito a salvare il Natale, come nei film di Netflix. Eh sì, il premier che tutti ci invidiano ci ha rifilato l’ennesima balla.
Sarebbe però ingeneroso non dare i giusti meriti anche a chi, nell’ultimo anno, lo ha affiancato nella tambureggiante propaganda: «I ministri migliori del mondo» li definisce Conte. Vedi Roberto Speranza, già assessore all’Urbanistica a Potenza, leader di Leu, laureato in Scienze politiche e opportunamente nominato ministro della Sanità. Un impavido condottiero che, fin dall’inizio, indica la rotta ai cittadini. Il 2 febbraio 2020, per esempio, condanna gli allarmismi di certuna stampa: «Le scelte che stiamo facendo possono rassicurare il nostro Paese, non bisogna avere paura. Siamo pronti anche a scenari che possono avvenire, ma che noi escludiamo totalmente». Nel dubbio, una ventina di giorni più tardi chiama al suo fianco il Maradona dei consulenti: Gualtiero Ricciardi, in arte Walter, già nel board dell’Oms. Nomina azzeccatissima.
Fin dalle prime dichiarazioni, si capisce che il professore è della stessa stirpe dei Conte e degli Speranza. A fine febbraio, si scaglia contro i test di massa per gli asintomatici a Vo’ Euganeo: «Un errore» che ha portato «confusione e allarme sociale». Nel paesino del padovano lo screening di massa è però salvifico. E il 22 marzo, mentre l’Italia supera la Cina per numero di contagi, Ricciardi rettifica. Tamponi anche a chi non ha i sintomi: «Partiamo dalla prossima settimana». E le mascherine? «Alle persone sane non servono a niente» garantisce il luminare.
Al pari di Speranza, pure la collega all’Istruzione, Lucia Azzolina, è stata superba fin dagli esordi. Ma il meglio l’ha dato a due mesi dalla prima chiusura delle scuole: il 15 aprile 2020. Dopo settimane apocalittiche, giura: «Daremo risposte puntuali. Trasformeremo la crisi in opportunità». Come aver offerto agli alunni la cancellazione di metà anno scolastico: altro indiscusso record del continente. Poco male. A metà luglio, Azzolina informa: «Il governo ha lavorato in questi mesi per garantire la sicurezza di tutti». Difatti, quando le scuole vengono riaperte a settembre, metà fra insegnanti e personale scolastico non ha fatto il tampone. Quisquilie. E a inizio ottobre, quando i contagi cominciano a impensierire, lei proclama: «Le scuole non chiuderanno». Conte aggiunge: «Non ci sono i presupposti per prefigurare il ritorno alla didattica a distanza». Un mese dopo, superiori e medie ripiombano nell’infernale girone delle sessioni telematiche.
Già europarlamentare del Partito democratico, storico del marxismo assiso alla guida del ministero dell’Economia, pure Roberto Gualtieri in questi mesi si è distinto. A partire dallo scorso aprile, quando scandisce: «Nessuno perderà il posto per colpa del coronavirus». L’Istat adesso ragguaglia: nel 2020 sono 202 mila disoccupati in più, una crescita dell’8,6 per cento. E quest’anno, stima Confcommercio, sono sparite quasi 400 mila imprese: l’80 per cento a causa del Covid. Ma come? Il 13 ottobre scorso il nostro affidabilissimo premier non ci aveva garantito che l’economia stava «ricominciando a correre»?
Oltre ai ministri migliori del mondo, Conte può contare anche sul commissario più capace del pianeta: un altro che, quanto a realtà edulcorata, resta un supercampione. Volto stropicciato e cravatta allentata, a lui dobbiamo tutto. E fa niente se, preso dalle sue strepitose imprese, incorre in qualche inesattezza. Le traversie di Domenico Arcuri cominciano con le introvabili mascherine a 50 centesimi. «Colpa di farmacisti e distributori» ribatte pinocchiesco. Ma anche, prendendola alla larga, «dei liberisti che parlano dal salotto di casa, sorseggiando il loro cocktail». E perché si fanno così pochi tamponi? La colpa va divisa tra l’«organizzazione federalista della sanità» e la carenza di reagenti.
E il flop di Immuni? «La principale delle ragioni è il rilassamento generale». E il click day della sua Invitalia, con gli aiuti esauriti in un secondo? «Modalità scelta dal governo». Piccole sbavature. Perché lui l’aveva detto già il 4 giugno 2020: «Siamo stati straordinari, i fatti hanno prevalso sulle chiacchiere». Ed è questo strepitoso atteggiamento superpositivo che lo accomuna al suo più illustre estimatore, Giuseppi. Con l’approssimarsi della fine di questo anno di virus e panzane, il premier ha sparato in aria gli ultimi bengala. Matteo Renzi chiede il rimpasto? Gli alleati dubitano delle sue incontrastate capacità? I cittadini lo guardano ormai con malcelata sopportazione? Nessun problema. «La prospettiva di ritornare all’avvocatura mi dà serenità e tranquillità». Davvero, lui a fare il premier non ci tiene affatto.
Certo, è passato dalla guida di un governo di centrodestra a uno di centrosinistra in mezza giornata. Ma è stato solo un accidente della storia. Lungi da lui pensare alla poltrona che miracolosamente occupa. C’è da credergli, davvero. «Anch’io sono fungibile, sostituibilissimo» dice senza scomporre il ciuffo.
Il potere? Puah! Il nostro Giuseppi non sa cosa farsene. Da mesi lo tirano pure per l’elegante giacchetta: vuole farsi il partito personale. Macché ha continuato a ripetere lui. «Non ci penso affatto». «Un lavoro già ce l’ho». «Una follia». Ma adesso, a chi gli chiede di una propria lista o magari della guida dei morenti pentastellati, lui alza il sopracciglio: «Scommesse non ne faccio». Del resto anche Winston Churchill, l’incolpevole statista preferito, diceva che bisogna sempre proteggere la verità. Con una cortina di bugie.