Dieci anni fa moriva George Best. Con lui, il calcio diventò poesia

"Nel 1969 ho dato un taglio a donne e alcool. Sono stati i venti minuti peggiori della mia vita". Firmato George Best, uno dei migliori poeti declinati al calcio della storia del pallone, scomparso il 25 novembre di dieci anni fa. Un campione, prima di tutto. Capace di saltare l'avversario con numeri di magia che nemmeno Houdini. Quando sfrecciava sulla fascia, era quasi impossibile fermarlo. Correva come una pantera e improvvisava danze sul pallone da far venire il mal di pancia a chi gli si faceva davanti. Il talento di Best era grande come la convinzione che aveva in se stesso: meglio di lui, ripeteva spesso, nessuno mai.  

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Nel 1964 in una gara contro il Fulham
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Best nel 1966
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Con i compagni di squadra nello United Bobby Charlton e Tony Dunne. Era il 1971
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Nel 1976 con la divisa del Fulham
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1978, al Rose Bowl di Pasadena, in California. Best consegna una targa celebrativa a Pelè
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Con Bobby Charlton e Denis Law nel 1995 al lancio del canale tv Sky Sports Gold
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Il tributo dei suoi tantissimi sostenitori all'esterno dell'Old Trafford nel giorno della sua morte
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L'applauso del Manchester United all'Old Trafford in memoria di Best
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La statua che campeggia fuori dell'Old Trafford. Da sinistra, Best, Law e Charlton

Nato a Belfast, in Irlanda del Nord, il 22 maggio del 1946, Best fece il suo esordio nel massimo campionato inglese all'età di 17 anni contro il West Bromwich Albion. La maglia, quella del Manchester United, che l'aveva arruolato due anni prima per svezzarlo nelle giovanili. "Credo di aver trovato un genio", scrisse l'osservatore dei Red Devils all'allora tecnico dello United, Matt Busby. Mai rapporto tecnico su un giocatore fu più azzeccato. Da quella gara, Best non uscì più dallo spogliatoio della prima squadra, dove rimase per undici stagioni, meravigliando ed entusiasmando. Sul campo, un fuoriclasse, un fenomeno, un campione in grado di mettere a ferro e fuoco le difese più organizzate. Nella vita privata, un personaggio sopra le righe, divertente e divertito, playboy senza macchia e senza paura. Vittima dei suoi fantasmi e delle proprie insicurezze. Al contrario di molti suoi colleghi, non fuggiva dalla macchina da presa, anzi, la cercava. Era un divo, Best. Un divo con due piedi e una testa da far innamorare platee infinite di donne e di appassionati del calcio.

Nei primi quattro anni di carriera, Best scalò le vette più alte del continente europeo. La Coppa d'Inghilerra, per cominciare, poi due campionati inglesi, due Charity Shield (la Supercoppa nazionale), quindi la Coppa Campioni, raggiunta il 29 maggio del 1968 allo stadio londinese di Wembley contro il Benfica di Eusebio. Best segnò la prima rete dei supplementari, aprendo la strada al 4-1 finale. Per la cronaca, la gara finì negli archivi con una doppietta di Bobby Charlton, l'altro grandissimo di casa United. Il trionfo nel torneo più importante d'Europa gli permise di farsi largo nella sfida da leggenda per vincere il Pallone d'oro, che fece suo proprio nel '68 dopo aver avuto la meglio sul compagno di squadra Charlton e Franz Beckenbauer, il "Kaiser", l'airone del Bayern Monaco. Best aveva fatto scacco matto al pallone internazionale ad appena 22 anni.

Tutto e subito, poi il lento delicno. Best non riuscì più a ripetersi. Colpa dello United, che poco alla volta aveva smarrito la via del bel gioco. Colpa del modo di intendere la vita, che poco o nulla aveva a che fare con la figura dell'atleta che oggi conosciamo. L'alcol e le donne. Best non poteva fare a meno di loro, che nel tempo gli provocarono una serie di guai da mani nei capelli. Sia chiaro, il suo talento col pallone tra i piedi non fu mai messo in discussione. Eppure, partita dopo partita, anno dopo anno, scivolò nella provincia del calcio, a mostrare il suo talento a spasso per il mondo. Per il piacere di giocare e nulla più. Lasciò il Manchester nel gennaio del 1974 per indossare le divise di squadre sconosciute ai più, come la sudafricana Jewish Guild, l'australiana Brisbane Lions, e di club statunitensi come Los Angeles Aztecs, Ft. Lauderdale Strikers e San José Earthquakes. Nel mezzo, una spruzzata di Inghilterra (Stockport County, Fulham, Bournemouth), Scozia (Hibernian), Irlanda (Cork Celtic) e Irlanda del Nord (Tobermore United), dove concluse la carriera nel 1984. Non giocò mai i Mondiali.

La sua partita più difficile fu contro la dipendenza dall'alcol. Negli anni, la bottiglia era diventata una compagna di viaggio insostituibile: non poteva farne a meno. La sorte gli presentò il conto alla fine dei Novanta. Nel 2002 subì il trapianto del fegato, dal quale non riuscì a riprendersi completamente. Morì in un letto d'ospedale il 25 novembre del 2005, all'età di 59 anni. Le sue ultime parole fanno ancora adesso gelare il sangue: "Don't die like me", non morite come me. E' stato un grandissimo, Best, uno dei migliori calciatori che la storia di questo sport abbia avuto la grazia di farci conoscere. 

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