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Forse gli Islamisti possono aiutare la democrazia

L'islamismo politico può convivere con la democrazia, ed è necessario fare di tutto per includere i più moderati nel sistema politico dei paesi mediorientali. Saranno un freno al jihadismo.

È la coraggiosa, e controcorrente rispetto al sentire comune, analisi dell'Economist su come andrebbero considerati e trattati i partiti islamisti - in sostanza il mondo che ruota attorno alla Fratellanza musulmana e a formazioni simili.

La storia di copertina del settimanale più liberale e pragmatico del globo, ci dice che l'islamismo politico andrebbe accolto nel meccanismo della democrazia e che i moderati nelle loro fila dovrebbero diventare degli interlocutori dei partiti che lavorano per l'apertura delle società arabe.

Schiacciarli indiscriminatamente e in modo autoritario, in sostanza come ha fatto Sisi in Egitto nel 2013 o i militari in Algeria negli anni '90, porterà sicuramente anche le frange più moderate a compattarsi con quelle più oltranziste, nel segno di una maggiore radicalizzazione.

Uno spettro di forze

L'obiettivo dell'Islamismo politico è la costruzione di uno Stato governato dai principi islamici, d'accordo; è tuttavia importante riconoscere, precisa l'Economist, che si tratta di uno spettro di soggetti diversi: va, grosso modo, dai "Musulmani democratici" tunisini di Ennahda, fino ad Hamas, arrivando all'Isis, come molti processi di radicalizzazione dimostrano.

I primi, almeno per ora, si sono dimostrati fedeli alla promessa di democrazia e collaborano con partiti laici in una coalizione che governa il paese - tanto è vero che la Tunisia è l'unica ad avere evitato spargimenti di sangue dopo la primavera araba.

In mezzo c'è la Fratellanza, ma anche Hamas, entrambi ostili alle regole della democrazia e che hanno usato anche la violenza e il terrorismo come pratica di lotta politica. E tuttavia nella stessa Fratellanza musulmana, in Egitto, ci sono componenti più radicali e che predicano il confronto armato e altre che puntano su un approccio disponibile al dialogo e a trattative. Del resto, non va dimenticato che per i Jihadisti dell'Isis, la Fratellanza è un gruppo di apostati che meritano solo disprezzo.

Quindi, anche se è comprensibile la tentazione di considerare tutti coloro che lottano per ottenere il potere nel nome dell'Islam una minaccia, è fondamentale saper distinguere: perché la repressione generalizzata di tutti gli islamisti porterà, secondo l'Economist, altro "risentimento, disordine e terrorismo".

Tre errori

Chi considera i diversi soggetti dello spettro dell'Islamismo politico ugualmente da sopprimere compie tre errori. Il primo errore è proprio sostenere che gli islamisti siano tutti uguali. Il che, per la verità è un errore da attribuire principalmente alle ambiguità e alle doppiezze delle organizzazioni islamiste, come la Fratellanza musulmana o Hamas, i cui messaggi di disponibilità al dialogo sono quasi sempre associati a proclami radicali e alla pratica della violenza.

Però, la facenda è più complicata- Per esempio perché uno dei massimi nemici della Fratellanza musulmana in medio oriente, l'Arabia Saudita, è ispiratore ideologico del jihadismo più radicale di al-Qaeda e dell'Isis. E, come detto, i Jihadisti fanno di tutto per mostrare il loro disprezzo per le tattiche di penetrazione sociale della Fratellanza, basate anche sulla fornitura di servizi alla comunità e sulla partecipazione alle elezioni.

Il secondo errore nel trattare gli islamisti è pensare che tutti considerino le elezioni come strumento per prendere il potere per poi mantenerlo in modo autoritario: "Una persona - un voto, ma per una sola volta", insomma. Anche qui gli esempi che spieghino questo errore non mancano in effetti. Erdogan in Turchia era considerato un modello di islamismo moderato e democratico e tollerante, prima della svolta autoritaria, culminata con la repressione post-golpe del 2016.

La Fratellanza, in Egitto, dopo aver vinto le elezioni e ottenuta la presidenza della Repubblica con Mohammed Morsi stava dimostrando una marcata tendenza autoritaria e di occupazione dello Stato.

Tuttavia, dice l'Economist, si potrebbe anche considerare che la reazione di Morsi e Erdogan fosse un tentativo preventivo di reagire al colpo di coda delle forze di sicurezza di Egitto e Turchia, contro la presa del potere "democratico". In verità gli esempi a favore di questa tesi sono solo due: la Tunisia e il Marocco, dove le componenti islamiste moderate hanno accettato compromessi e evitato i bagni di sangue avvenuti negli altri paesi arabi.

Ma sono esempi che dovrebbero sottolineare il fatto che l'accettazione della rappresentatività democratica di queste forze e la disponibilità a lavorare e dialogare con loro favorisce le componenti dirigenti moderate e ragionevoli.

Infine, terzo errore: pensare che la soluzione siano gli uomini forti e autoritari alla al-Sisi in Egitto. In questo caso, l'Economist non ha dubbi: il governo di al-Sisi è un fallimento sotto tutti i punti di vista.

Al Sisi si è sbarazzato di molti militanti della Fratellanza con un massacro senza precedenti nel 2013; ha instaurato un regime autoritario brutale - anche se non sono in pochi in occidente a flirtare con lui -, si trova comunque a fronteggiare con fatica forze jihadiste in Sinai e non ha finora dimostrato alcune idea di governo dell'economia, soprattutto per dare lavoro ai giovani del paese, dai quali dipende in buona misura il consolidamento di uno stato aperto e liberale.

L'unica strada che hanno i paesi arabi per uscire dalla terribile crisi, conclude Economist, è quella dell'apertura politica ed economica.

E per far questo è pragmaticamente indispensabile includere l'Islamismo moderato, favorendo la separazione dalle forze estremiste da quelle jihadiste, negoziare con loro per ottenere il massimo possibile in fatto di democratizzazione e rispetto della laicità dello Stato.

Insomma, l'islamismo politico potrebbe così diventare un ostacolo formidabile per il jihadismo, e non, come si teme spesso, una strada verso il jihadismo.

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