Fine delle supermulte sulle quote dell’«oro bianco» che le nostre stalle hanno prodotto venendo punite da Bruxelles. Ma nel frattempo il settore è stato piegato, con 2.500 chiusure e troppi suicidi. E il futuro è ancora scuro.
Nelle stalle c’è posta per te! Stanno arrivando in questi giorni dall’Agea – è l‘agenzia per i fondi agricoli – le nuove cartelle che dovrebbero mettere fine a quella che è stata la guerra dei trent’anni del latte. Con un forte sconto. Le vecchie multe delle quote latte hanno trovato una definizione con la legge del 10 agosto dopo una decennale lotta della Lega. Un emendamento di Giorgio Maria Bergesio, Gianmarco Centinaio, Elena Murelli e Claudio Borghi della Lega e di Luca De Carlo di Fratelli d’Italia, ha messo una pietra sopra alle supermulte che l’Italia ha applicato, sbagliando i calcoli, a chi ha sforato la produzione nelle «campagne» 1995-1996 fino al 2008-2009. Le sanzioni saranno prive di more, gli interessi decorreranno solo dal 2019, verranno ricalcolati gli importi e si potrà avviare una rateizzazione fino a 30 anni. Si riconoscono così le sentenze della Corte europea emesse tra il 2019 e l’inizio del 2022 che davano torto ai nostri governi. L’Italia, accusata di aver sforato le quote di produzione, era stata sanzionata per 2,3 miliardi da Bruxelles. I governi avevano pagato al posto dei produttori. L’Europa ha imposto invece che lo Stato prelevasse i soldi dalle stalle, ma solo a chi aveva sforato davvero. I provvedimenti di recupero emessi dall’Agea per un totale di circa 1,3 miliardi hanno invece colpito tutti indistintamente, basandosi su tagli lineari di produzione partendo dalla media nazionale.
Ma questo ha provocato negli anni uno shock fortissimo al settore. Ci sono state almeno 2.500 chiusure di stalle soprattutto in montagna e c’è una dolorosissima Spoon river di allevatori suicidi. Come Francesco Slaviero, 47 anni di Grisignano (Vicenza) che si tolse la vita a marzo 2015 tenendo in mano una multa da 4 milioni; come Nevio Marcon di Collalbrigo (Treviso) finito in coma nel 2018, doveva pagare 1,5 milioni in 5 giorni con la stalla già fallita da 11 anni; come Carmen Bertocco di Vigonza (Padova): doveva pagare 3 milioni, si è annegata nel Brenta. Dopo i suicidi, i fallimenti, il crollo del settore e immense responsabilità dell’Europa si è arrivati a chiudere un contenzioso tanto artificiale per quanto devastante. Ci sono molti che oggi hanno diritto a vedersi riconosciuto il riconteggio delle sanzioni, tanti altri – per esempio chi ha allevamenti in montagna o in zone svantaggiate – che non dovranno pagare.
È la conclusione di una vicenda nata nel lontano 1984 frutto di un compromesso al ribasso fatto da chi era convinto che l’agricoltura fosse diventata inutile. A pensarlo era la Dc, quella stessa Dc che con la «bonomiana» – così una volta chiamavano la Coldiretti guidata e fondata da Paolo Bonomi – si era assicurata per decenni il voto rurale. Filippo Maria Pandolfi firmò d’accordo con Beniamino Andreatta, che sarà il suo successore come ministro del Tesoro, la condanna delle stalle. In Europa, Francia, Olanda e Germania volevano il monopolio del latte, s’inventarono le «quote» con la scusa di evitare sovrapproduzione e calo di prezzo. Filippo Mario Pandolfi barattò volutamente il futuro della zootecnia con quello delle acciaierie presentando dati farlocchi sulla produzione italiana di latte. A quelle quote siamo rimasti impiccati fino al primo aprile 2015: trent’anni di mungiture «clandestine» per poter fare Parmigiano Reggiano e Grana Padano: ogni forma si «beve» 550 litri. Nel 2016 l’Italia è diventato il più cospicuo importatore di latte perché con la fine delle quote si rivelò che non producevamo a sufficienza. Quell’anno ne comprammo all’estero 24 milioni di litri al giorno. Oggi ne acquistiamo all’estero per 2,3 milioni di tonnellate, che ci costano 1,6 miliardi. Assolatte guidata da Paolo Zanetti ha lanciato diversi allarmi (abbiamo avuto un calo dell’1 per cento con circa 12 milioni di tonnellate prodotte) sul comparto lattiero-caseario che deve fronteggiare aumenti di costi (oltre il 30 per cento), cali di consumo (-4 per cento per il fresco, -1 per l’Uht, quello sterilizzato ad alta temperatura), concorrenza estera sempre più agguerrita e ora anche il «nuovo» latte su cui scommette l’Ue, che ha incoraggiato gli investimenti nei bioreattori di Olanda e Danimarca: finiranno per produrre formaggio senza vacche.
Per l’Italia latte e formaggi significano 18 miliardi di fatturato, di cui 5 dall’export, 35 mila addetti e 1.500 imprese nella trasformazione, 26 mila stalle con 1,6 milioni di bovine (sono diminuite del 15 per cento in sette anni) e il rischio concreto, come spiega Ettore Prandini, presidente di Coldiretti nazionale e allevatore, è «perdere una stalla ogni dieci in pianura e una ogni tre in montagna: i costi sono diventati insostenibili, sono aumentati del 60 per cento». In questo scenario bussa il postino a ricordare che ci sono ancora in ballo le multe. Finalmente rivedute, corrette e ribassate. Ma c’è chi ha vissuto a lungo con l’incubo dei pignoramenti. A rileggerla dopo 30 anni la vicenda delle quote latte, c’è da domandarsi che cosa avesse in testa l’Europa. L’Italia ha pagato tra procedure d’infrazione e multe onorate dagli allevatori 5,4 miliardi di euro – solo nel periodo 1984-1996 lo Stato ha dato a Bruxelles per il latte versato 1,87 miliardi – per aderire a un sistema, confermato da Romano Prodi prima da presidente della Commissione europea e poi da presidente del Consiglio, che ha prodotto enormi distorsioni di mercato.
Il fatto che l’80 per cento degli sforamenti europei sia stato contestato all’Italia chiarisce due cose: i dati di produzione su cui furono assegnate le quote iniziali erano sbagliati, andava sottratto dall’ammontare nazionale il latte destinato a produrre formaggi Dop. Ipotesi a cui i governi di sinistra si sono sempre opposti solo perché la Lega, allora Lega Nord, si era posta alla testa degli allevatori che contestavano le multe. Uno studio della Coldiretti ha rivelato che nel mercato delle quote – molti allevamenti acquistavano diritti di produzione da chi decideva di smettere – le stalle hanno investito oltre 2 miliardi che sono stati sottratti allo sviluppo delle aziende.
Ci fu nel 2016 un crollo del prezzo, da allora il settore non si è più ripreso e ora ci risiamo. Il latte viene pagato dall’inizio dell’anno il 20 per cento in meno e l’Ismea – l’Istituto del ministero dell’Agricoltura che sorveglia i mercati – ha avviato un’indagine. C’è un dumping delle produzioni nordeuropee e il consumo sta diminuendo. Per chi alleva è sempre tempo di vacche magre anche se ora sulle multe c’è chiarezza. Ma soffre pure chi trasforma e commercializza. Al punto che questo potrebbe essere l’ultimo anno per il latte fresco nella grande distribuzione. Lo ha annunciato la Granarolo, uno dei maggiori gruppi lattiero-caseari. Giampiero Calzolari che la guida ha spiegato: «Le date di scadenza del prodotto troppo brevi e i costi del nuovo packaging imposto dall’Europa rendono non più economico commercializzare il fresco». Tutto ciò a fronte di una Commissione europea che ha dichiarato guerra alla zootecnia colpevole di alterare il clima. Non è vero, ma a Bruxelles ci credono. Così, dopo le quote latte ecco quelle per la CO2 con le stalle equiparate alle industrie. Una volta si diceva: bevete più latte, il latte conviene, il latte fa bene. Deve essere successo qualcosa nel frattempo.