Ma dove sono finiti i liberali?

Qualche giorno fa se n’è andato Antonio Martino, liberale e gentiluomo. Facile la tentazione di definirlo l’ultimo liberale, almeno se facciamo riferimento alla scuola, alla politica e al partito liberale. Martino era liberale di tradizione famigliare e di convinzione personale, anticomunista e atlantista, fautore del libero mercato e dei diritti individuali; ma aveva anche il senso dello Stato, della dignità nazionale e della sovranità, e nel nome stesso dei principi liberali ebbe il coraggio di votare contro il fiscal compact, dissociandosi anche dal centrodestra, perché vide in quell’inserimento del pareggio in bilancio nella nostra Costituzione, una cessione di sovranità e un rigido controllo eurocratico sul nostro Stato libero e sovrano.

Liberali in questi anni si sono definiti in tanti, a cominciare da Berlusconi e dal suo partito, anche se il suo partito è sempre stato una monarchia popolare. La tradizione liberale ha perduto via via i suoi riferimenti viventi, senza sostituirne con nuovi. C’è ancora a destra chi ha il coraggio di definirsi liberale (per esempio Guido Crosetto) e non mancano liberali su altri versanti, e tra autori, istituti o fondazioni; ma si fanno sentire sempre meno, soprattutto come liberali.

Il liberalismo, in Italia, è sempre stata una forza di minoranza, con percentuali minime; mai è esistito un partito liberale di massa, notava già Longanesi; è sempre stata una nicchia, un club riservato a pochi. Eppure personalità liberali hanno caratterizzato la repubblica, a partire da Benedetto Croce e Luigi Einaudi, e poi i liberali in politica come Malagodi e poi Zanone, Bozzi, Biondi, Costa e altri esponenti del Partito liberale. Vi era poi una tendenza liberale-radicale, di sinistra, più vicina ai progressisti e ai liberal angloamericani e con qualche vaga ascendenza gobettiana, per non parlare delle ibridazioni liberal-socialiste e del Mondo di Pannunzio.

Mentre il Partito liberale spariva senza lasciare segni, colpito perfino da alcune brutte inchieste sul malaffare in Tangentopoli, tutti da sinistra a destra, passando per il centro, rivendicarono la matrice liberale; in tanti auspicavano la rivoluzione liberale e reputavano la definizione di liberale come necessaria per superare i test d’accesso all’Europa, alla Modernità, al Mercato. Perfino la definizione di democratico era scivolata alle spalle dell’autocertificazione liberale. Sicché «il fantasma liberale», per citare un vecchio libro di un liberale del dopoguerra, Giulio Colamarino, dominava la scena politica. Ma negli ultimi due anni sono accadute varie cose: tra pandemia, sospensione di molte libertà e molti diritti costituzionali; poi il regime di controllo e di sorveglianza che si è esteso al di là dei confini sanitari, e da ultimo la guerra in Ucraina, come un’esperienza totale, che assorbe tutta l’informazione, detta comportamenti consoni allo stato di guerra e non consente divergenze d’opinione. Oggi è possibile cacciare un artista solo perché di nazionalità russa, cancellare un programma di studi perché dedicato alla letteratura russa, perfino sequestrare beni a imprenditori che hanno il torto di essere russi. O censurare giornalisti, studiosi e osservatori nostrani che mostrano qualche divergenza rispetto al canone di guerra imposto alla nostra democrazia: viene tradotta come intelligenza col nemico, e dunque tradimento.

Il risultato è che tutto quanto sapeva di civiltà liberale, diritti costituzionali, garanzie e libertà di opinione subisce una griglia di divieti o di inibizioni illiberali, di sospetti e misure restrittive. E anche le leggi di libero mercato vengono sottoposte a leggi di guerra, embargo e stati d’emergenza. L’alleanza tra progressisti dem, centristi di estrazione cristiana, radicali e verdi avviene su un terreno in cui di liberale è rimasto ben poco, forse una declamazione retorica e poco altro. L’alibi che da anni sentiamo ripetere ma che viene ormai applicato a contesti diversi - di tipo sanitario e giuridico, politico, economico e militare - è che quando ci sono cause di forza maggiore, quando è in gioco la biopolitica, cioè la salute, la vita e la morte della gente, la guerra, non si possono porre limiti e attaccarsi a garanzie di tipo liberale e costituzionale, si devono poter sospendere e revocare. Il risultato è la scomparsa dei liberali, come esponenti e come comportamenti; e il passaggio da una società aperta a una società coperta, con rigidi compartimenti stagni, in stato di perenne allarme e mobilitazione, sotto quella che ho definito La Cappa.

Possibile che non ci sia oggi nessun movimento liberale pronto a dissociarsi da questa pericolosa uniformità di atteggiamenti e di parole d’ordine e a denunciare questa abdicazione della libertà e questo reticolo di prescrizioni e proscrizioni? L’esempio più vistoso e deprimente è dato proprio dal regno dell’informazione che dovrebbe essere la prima sentinella della libertà e della differenza di opinioni al confronto: e invece regna un conformismo piatto, plumbeo, da Giornale Unico. Fino a poco tempo fa si gridava al rischio della libertà per l’avvento dei populisti, dei nazionalisti, dei sovranisti. Oggi che quelle forze contano poco e sono del tutto assimilate al «mainstream» vigente, la libertà è assai più in pericolo di quanto si temesse prima. Lo chiedo da non liberale: c’è qualcuno ancora vivo e attivo tra i liberali, disposto a farsi sentire?

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