Fare lobbying è un reato. Solo in Italia

L’Italia rischia di diventare l’unico paese europeo che, nel recepire una direttiva comunitaria, potrebbe decidere di vietare l’attività di lobbying. Nella nuova normativa sulla corruzione, infatti, sta per entrare il nuovo reato denominato “traffico di influenza”. Che verrà identificato come un reato, punibile fino a tre anni di reclusione.

Di che cosa si tratta? La nuova legge dice che chiunque paghi un terzo affinché cerchi d’influenzare un qualunque decisore pubblico (dal ministro al parlamentare, fino al consigliere comunale del più piccolo paese d’Italia), e da ciò tragga un vantaggio, commetterà il reato di “traffico illecito di influenza”. Questo anche nel caso in cui non ci sia alcuna illecita dazione di denaro al decisore medesimo.

Ma questo è proprio il mestiere del lobbysta, il lavoro di chi svolge attività di relazioni istituzionali per la rappresentanza di interessi, economici o meno, nell’ambito dei processi decisionali. Paradossalmente, il testo potrebbe ricondurre alla fattispecie del reato persino un sindacalista.

Insomma, è l’ultima follia giuridica di un paese che in materia non si sta facendo mancare nulla. Il “traffico d’influenze illecite” rischia anzi di assomigliare molto (e in negativo) al “concorso esterno in associazione mafiosa”, ma con contorni giuridici ancor più vaghi. E questo in un paese dove la discrezionalità di azione di certe procure e il fango di alcune macchine mediatico-giudiziarie, ben mixate, hanno già prodotto danni inimmaginabili. L’ultimo caso è quello dell’inchiesta sulla cosiddetta P4. Quell’inchiesta era partita ipotizzando in anticipo sulla legge una rete di illecite influenze, invece sta naufragando: per lunghi mesi, però, l’inchiesta ha sparso i suoi veleni grazie all’uso che ne hanno fatto alcuni giornali (usando a go-go le intercettazioni disposte dalla procura di Napoli).

Francamente, di un reato in più per alimentare questo tipo di pratiche non si sente proprio la necessità. Per fortuna, anche a sinistra c’è chi manifesta perplessità. Arturo Salerni, un penalista che fu collaboratore di Giuliano Pisapia nella commissione per la riforma del codice penale e nel 1999 fu il difensore del turco Abdullah Ocalan, dice che “indeterminata com’è, la nuova norma rischierebbe solo di scontrarsi con l’articolo 25 della Costituzione, che prescrive parametri di tassatività e determinatezza”. Dall’altro lato, aggiunge, “rischia di essere criminalizzante rispetto a comportamenti da considerare non patologici ma fisiologici della vita pubblica. Messa in quei termini, perfino l’azione sindacale potrebbe intendersi come influenza illecita su un pubblico decisore”.

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