Colpo di Stato in Turchia
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Erdogan, la crepa che si è aperta in Turchia

«Chi conquista Istanbul prende la Turchia» già sosteneva Recep Tayyip Erdogan, padre padrone del Paese, che ha subìto una sonora sconfitta nelle elezioni amministrative del 31 marzo. Istanbul, Ankara, la capitale, Smirne, Antalya e ben sette tra le 12 città più importanti sono state conquistate dall’opposizione, anche se i voti sul Bosforo sono oggetto di riconteggio per lo scarto minimo. Dopo una decina d’anni di vittorie ininterrotte il «sultano» segna il passo, ma non è l’unica crepa del suo progetto di espansione neo ottomana. La pesante crisi economica ha logorato la fiducia del ceto medio nel presidente turco, il braccio di ferro con gli Stati Uniti sui rapporti con Iran, Russia e la guerra in Siria ne stanno minando il potere indiscusso.

«Parlare di declino è presto, ma essere battuto nei maggiori centri del Paese risulta significativo» spiega a Panorama Andrea Marcigliano, esperto di Turchia del centro studi Nodo di Gordio. «La frattura più evidente e pericolosa è lo scollamento dei ceti medi, che rappresentavano la sua forza. Erdogan era riuscito a unire attorno a sé i conservatori islamici delle campagne e la borghesia dei grandi centri urbani non necessariamente religiosa. Il blocco dell’economia l’ha azzoppato e alienato i voti del ceto medio metropolitano».

Erdogan però non demorde e sottolinea che la sua coalizione guidata dal partito Giustizia e libertà è sempre maggioritaria nel Paese con il 44,3 per cento dei voti. Ibrahim Kalin, il suo portavoce, ha ribadito via Twitter che «il mandato (del presidente) scade nel 2023. Fino ad allora non ci saranno elezioni». La data coincide con il centenario della fondazione della Repubblica laica di Mustafa Kemal Atatürk. Un motivo in più, dal punto di vista dell’opposizione, per provare a deporre il «sultano» attraverso le urne. Il nuovo leader nato da un’inedita alleanza fra socialdemocratici, nazionalisti scissionisti e curdi potrebbe essere il neo sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu. Nella città sul Bosforo ha sconfitto l’ex premier, Binali Yildirim, presidente del Parlamento e fedelissimo di Erdogan se il riconteggio dei voti confermerà il risultato.

«È indubbio che la crisi economica ha danneggiato seriamente il presidente, ma i settori più produttivi della popolazione soffrono pure del braccio di ferro con gli Usa e della mancata adesione all’Unione europea. Anche l’abbraccio con la Russia, nemico storico, non è ben visto da tutti» aggiunge Marcegliano. L’economia turca è in picchiata. L’ultimo trimestre del 2018 si è chiuso in recessione con un sonoro -2,4 per cento del Pil. La lira turca è sotto pressione e ha perso terreno su euro e dollaro. L’inflazione supera il 19 per cento e la disoccupazione è sopra il 13.

La popolarità di Erdogan sta pagando le conseguenze di scelte sbagliate e una gestione «familiare» nelle scelte macroeconomiche. Il ministro delle Finanze, Berat Albayrak, è il genero del presidente. «La crisi economica è causata pure dagli americani che hanno tagliato i ponti del mercato con la Turchia» fa notare Marcegliano «Donald Trump è un professionista in questo campo. Non si tratta di sanzioni, ma gli è bastato alzare barriere protezionistiche contro l’industria e il commercio della Turchia». Alla Casa Bianca non vanno giù i rapporti sempre più stretti con la Russia e l’Iran nel «grande gioco» dell’egemonia regionale in Medio Oriente. In Turchia sta arrivando l’impenetrabile sistema di difesa aerea di Mosca S 400. Uno schiaffo agli Stati Uniti da parte del secondo esercito della Nato oramai sotto lo stretto controllo di Erdogan dopo il fallito e strano golpe del 2016, che ha permesso al presidente di epurare i vertici delle Forze armate e migliaia di ufficiali troppo laici.

Le «purghe» in tutti i settori del Paese hanno portato 100 mila persone in carcere e 150 mila dipendenti statali licenziati. Gli accordi con Mosca riguardano anche la partita energetica, che interessa l’America. Dopo il Blue stream che porta il gas della Russia alla Turchia, si sta realizzando il Turkish stream. Alla cerimonia di apertura della parte off shore del nuovo gasdotto ha partecipato il presidente Vladimir Putin, per enfatizzare un progetto che avrà una portata di 31,5 miliardi di metri cubi di gas all’anno. La nuova linea si estenderà per 910 chilometri sui fondali del Mar Nero e attraverso la Turchia dovrebbe proseguire verso l’Europa, via Balcani, per diversificare l’accesso del gas russo lungo la turbolenta Ucraina.

Come non bastasse, i russi hanno iniziato i lavori per la centrale nucleare turca di Akkuyu, che dimostra - parole di Putin - «l’amicizia fra le due nazioni». «Oltre ai rapporti sempre migliori con Russia e Iran, gli americani sono infastiditi dall’appoggio di Ankara al Qatar» nota ancora Marcigliano. «Trump punta sui sauditi, ma Erdogan, in risposta al blocco dell’emirato da parte dei Paesi del Golfo, ispirato da Riad, ha organizzato un ponte aereo con Doha». Nelle tese relazioni con Washington si inserisce anche l’adesione «a braccia aperte» della Turchia alla nuova Via della Seta cinese per la penetrazione economica e commerciale verso l’Europa.

Inevitabile che abbia deciso di bloccare la consegna dei primi 30 caccia F-35 ad Ankara. La sfida più bizantina di Erdogan tuttavia si gioca in Siria, dove «la Turchia sta cercando di portare a termine una complicata e delicata operazione di bilanciamento per mantenere la Russia serena, l’Iran neutrale e il regime di Assad pacificato. E allo stesso tempo evitare di alienarsi troppo l’amministrazione americana» argomenta Gunez Yildiz del Middle East institute, centro geopolitico di ricerca indipendente con sede a Washington.

L’esercito di Ankara in Siria garantisce la fragile tregua nella sacca di Idlib, l’ultima zona del Paese relativamente ampia, a nord di Damasco, dove si sono rifugiati i superstiti ribelli jihadisti dominati dalle formazioni filo Al Qaida. Ad Afrin e di fronte all’enclave in mano ai curdi di Manbji, i turchi tengono a libro paga i gruppi ribelli e il dito sul grilletto. Secondo Erdogan la minaccia «esistenziale» è rappresentata dai 20 mila uomini delle Unità di protezione popolare, le forze curde-siriane che si sono ritagliate il controllo del 25 per cento del Paese, nel Nord-Est della Siria.

I curdi con l’appoggio di 2 mila soldati americani, che adesso hanno ricevuto l’ordine di ritirarsi, sono riusciti a liberare Raqqa, la capitale dello Stato islamico e a spazzare via le bandiere nere dal loro territorio, che confina con la Turchia. Erdogan allora chiede a gran voce una zona cuscinetto e minaccia un intervento militare diretto contro il Kurdistan siriano, che bolla come «un covo di terroristi». La campagna militare di Ankara, che non è riuscita ad abbattere Assad, ha svenato le casse statali e sta continuando a costare per mantenere una presenza militare e i suoi alleati locali. Lo stesso Erdogan aveva collegato l’aumento del prezzo dei generi alimentari in Turchia, che ha pesantemente intaccato la sua popolarità, al conflitto contro i curdi in Siria e Iraq usando una celebre frase: «Lo sapete quanto costa un proiettile?». A lui, adesso, può costare caro.

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