Il Governo Letta, tra parole, promesse e le cose da fare

L’Italia delle chiacchiere. L’Italia degli annunci. L’Italia che lancia il decreto del fare (prima di farlo, cioè senza averlo fatto). L’Italia dei convegni e delle comparsate televisive dei big.

L’Italia dei premier che cominciano a lavorare e poi finiscono sul palco della “Repubblica delle idee” a far battute e ti chiedi, tra una partecipazione al raduno della Cisl e un’altra di inaugurazione del Meeting di Rimini, più tutti gli impegni di pubblica visibilità (ma non di pubblica utilità) che stanno là in mezzo, quando mai Enrico Letta trovi il tempo di lavorare.

L’Italia che crede di esser passata attraverso l’austerità senza capire che l’austerità, quella vera, alla greca, non è neppure cominciata. L’Italia che si riempie la bocca della parola “riforme” e viene stanata dal tormentone del Financial Times che accusa anche Enrico Letta, dopo Berlusconi e Monti, di non realizzarle, le riforme vere. “Esca dal letargo”, è il pungolo del foglio della City al nostro presidente del Consiglio, un commento che da un lato indica la necessità di tagliare le spese e onorare la disciplina di bilancio, dall’altro insiste perché le “cicale” mediterranee si decidano a imitare le formiche nordeuropee e a varare riforme inevitabili seppur dolorose.

Possibile, per esempio, che anche l’abolizione dell’Imu sulla prima casa o il non aumento dell’Iva diventino (dopo un chiaro discorso alla Camera di Letta che ha assunto impegni precisi) oggetto di dibattito tra ministri, con il premier che si barcamena discettando sul coraggio di dire “no” quando l’Italia è ferma proprio perché ostaggio di troppi “no” (ideologici, di casta, corporativi)?

Ci sarà mai finalmente un presidente del Consiglio che abbia il coraggio di dire “sì”, di prendere decisioni coraggiose, di assomigliare a uno statista? Un noto liberale canadese (noto ai liberali) spiegò una volta che il leader non è come la punta del triangolo di uccelli migratori che si spostano in cielo e quando lo stormo cambia direzione il capo si riallinea collocandosi al vertice. Il leader è quello che “fa” la direzione, e lo stormo si adegua alle sue scelte di navigazione.

Monti ha indicato una strada senza avere il coraggio di dire “sì”, in pratica avendo come faro solo Berlino e il rigore dei conti. Un non-leader. Letta è giovane, competente, fortunato. Ma se ricade nella letargia che gli imputa il Financial Times e invece di lavorare appare nei convegni e alla tv per mostrare quanto sia bravo a arrampicarsi sugli specchi senza mai assumere un rischio o una responsabilità, ecco che il governo ricade nella sindrome dell’esecutivo “tecnico”. Schiavo di due padroni. La pubblica opinione, e i numeri.

Questa “Repubblica delle idee” avrebbe bisogno di chiacchierare meno e lavorare di più. Smetterla di parlarsi addosso e promettere chissà che. E, soprattutto, annunciare i provvedimenti dopo averli decisi.

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