Diritti tv, il punto debole delle motivazioni dei giudici

«Il ruolo pubblicamente assunto dall'imputato, non più e non solo come uno dei principali imprenditori incidenti sull'economia italiana, ma anche e soprattutto come uomo politico, aggrava la valutazione della sua condotta». Così scrive la Corte d’appello di Milano nelle motivazioni della sentenza con cui, una decina di giorni fa, ha ridotto da cinque a due anni l’interdizione dai pubblici uffici di Silvio Berlusconi: la pena va ad aggiungersi ai quattro anni di reclusione stabiliti dalla Cassazione lo scorso 1° agosto in via definitiva. La stessa Cassazione aveva chiesto alla Corte d’appello di rivalutare proprio la durata dell’interdizione, in quanto i cinque anni di interdizione stabiliti dal precedente secondo grado di giudizio erano troppi. Ora il giudizio sull’interdizione passa nuovamente alla Cassazione.

Insomma, la Corte d’appello ha stabilito che la pena deve comunque essere elevata perché l’imputato Berlusconi è un imprenditore e un politico. Stupisce non poco il moralismo di questa affermazione, che di giuridico pare avere assai poco. In realtà, l’interdizione dai pubblici uffici non è una gogna da amministrare con maggiore o minore severità a seconda del ruolo del condannato. I giudici non sono al servizio di uno Stato etico, che pretende di educare la morale e le coscienze. In uno Stato di diritto ci sono regole e pene, norme e sanzioni. Che non cambiano a seconda del «ruolo pubblicamente assunto» da questo o quell’imputato. E per fortuna il nostro presidente del Consiglio   va ripetendo che in Italia «la giustizia funziona alla perfezione». 

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