Sisma: operazione strade sicure
Ansa/Esercito Italiano
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Una Difesa lasciata sola

Generali ribelli, spese della Difesa «in stato confusionale», il decreto missioni presentato fuori tempo massimo, contratti per sistemi d’arma cruciali non firmati, costosa indecisione sui caccia F-35, il rischio di un miliardo in meno per gli investimenti nella Difesa, 60 milioni di euro l’anno di straordinari non pagati sono alcuni dei nodi che stanno venendo al pettine. Il simbolo «peace & love» in Parlamento, i balletti imbarazzanti a Lourdes, le entusiastiche congratulazioni alla coppia gay della Marina rappresentano solo il contorno folcloristico del ministro della Difesa, Elisabetta Trenta. Il problema vero è che il mondo militare si sente a disagio con la gestione politica del dicastero come mai è capitato prima.

Panorama ha interpellato i generali ribelli, esperti e analisti, personale in servizio in quest’inchiesta su tutte le criticità della Difesa. Il ministro, il suo ufficio stampa e il portavoce non hanno neppure risposto a una richiesta di intervista.

Il decreto per le missioni internazionali è stato finalmente presentato alle Commissioni parlamentari il 31 maggio ma non si sa quando verrà convertito in legge. Un ritardo di sei mesi rispetto alla scadenza del 31 dicembre. Due in più del governo Renzi. L’aspetto paradossale è che sembra una specie di fotocopia del decreto del governo precedente di centrosinistra. La spesa è di un miliardo e 428 milioni di euro e i militari impegnati sono 7.343 unità, 624 in meno rispetto al 2018. «Perché non presentarlo prima ed evitare un duplice problema: la mancata copertura giuridica per i nostri militari impegnati all’estero e una questione finanziaria. Senza la copertura del decreto missioni i comandanti hanno le mani legate per manutenzioni ed esercitazioni» spiega Vincenzo Camporini, ex capo di Stato maggiore della Difesa, uno dei generali ribelli, che ha disertato per protesta la parata del 2 giugno. Una fonte della Difesa svela a Panorama l’arcano: «Il decreto è stato rimandato perché c’era il voto europeo e non si voleva puntare i riflettori sulle missioni all’estero, che di fatto non cambiano».

Questione minore rispetto al ridimensionato budget del ministero guidato da Trenta per il 2019. Michele Nones, dell’Istituto affari internazionali, evidenziava fin da aprile in uno studio dettagliato, che «la gestione governativa delle spese per la difesa sembra essere oramai precipitata in uno stato confusionale».

Per un giudizio definitivo bisogna aspettare il Documento programmatico pluriennale 2019-21, che a termini di legge doveva essere presentato in Parlamento a fine aprile, ma non ha ancora visto la luce. Al momento, secondo Giovanni Martinelli, analista del settore difesa «la quantità di risorse disponibili per gli investimenti potrebbe essere di un miliardo di euro in meno rispetto al 2018». Una botta pesante, ma non l’unica: le voci «formazione e addestramento» oltre a «manutenzione e supporto» sono ugualmente in calo. Non solo: i proventi della vendita degli immobili militari dovevano andare per il 35 per cento al ministero della Difesa. Il «governo del cambiamento» ha stabilito che questa percentuale scenderà al 10 per cento.

Il 6 giugno il ministro Trenta rispondendo al question time alla Camera ha smentito le riduzioni, ma si riferiva a fondi stanziati in tempi lunghi: «Le assegnazioni previste consolidano una dotazione addizionale pari a 5,8 mld di euro, cui si aggiungono oltre 3,4 mld di euro provenienti dalle risorse del ministero dello Sviluppo economico».

Il bilancio è salito del 2,2 per cento a 21.432,2 milioni di euro, ma riguarda l’esplosione dei costi del personale, che assorbe i tre quarti del budget. In pratica con meno investimenti e soldi per addestramento e manutenzione che mettono in dubbio la stessa operatività militare, sostiene Martinelli, «rischiamo di avere delle Forze armate che sono tigri di carta. Spendiamo poco, ma pure male». E abbiamo soldati sempre più «vecchi» grazie ai tanti di marescialli poco operativi, che il ministro Trenta vuole aumentare. Un concorso straordinario sfornerà nuovi marescialli rendendo impossibile far scendere il numero entro il 2024 per raggiungere un totale di 150 mila uomini nelle Forze armate. Nonostante il capo di Stato maggiore dell’Esercito, Salvatore Farina, abbia dichiarato l’8 maggio che bisogna «prevedere una modifica normativa per dare impulso al ringiovanimento se si vuole contrastare il trend della categoria dei graduati proiettata verso breve a un’età media di oltre 45 anni». Anche altre parole dell’alto ufficiale rischiano di restare lettera morta: «Per quanto riguarda le capacità e i sistemi d’arma l’obiettivo è avere un esercito sempre più moderno allo stesso livello delle Forze armate consorelle. Un aspetto che non può prescindere da un’importante spinta negli investimenti a breve per consentire un rapido ammodernamento».

Il grande punto di domanda sono i fondi effettivi che metterà a disposizione il ministero dello Sviluppo economico, a favore della Difesa, guidato da Luigi Di Maio. Per ora ha cancellato il programma di rinnovamento della difesa contraerea Camm-Er, che costa mezzo miliardo, ma spalmato fino al 2031. Nel 2019 basterebbe stanziare 25 milioni di euro. Il sistema attuale «Spada» è oramai obsoleto e senza i nuovi missili non potremmo neanche ospitare summit internazionali, Olimpiadi e Mondiali. Ovvero, i grandi eventi che dopo l’11 settembre impongono sistemi di difesa aerei. Si rischia che basi, aeroporti e missioni all’estero restino sguarnite.

Trenta non ha risposto a una lettera degli inglesi del novembre 2018, controparte nel programma Camm-Er. Un harakiri tenendo conto che la produzione garantirebbe allo stabilimento di Mbda (25 per cento Leonardo, ex Finmeccanica) assunzioni e commesse per anni nell’impianto di Fusaro, in provincia di Napoli, collegio elettorale del vice premer Di Maio.

«Siamo di fronte a dilettantismo e inadeguatezza. E il 90 per cento degli alti ufficiali in congedo la pensa come noi» spiega a Panorama un altro ribelle, l’ex generale Leonardo Tricarico, ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica. Il governo «non garantisce l’efficienza dello strumento militare, non sostiene i programmi di sviluppo della Difesa. E vuole irrigidire le esportazioni delle nostre industrie militari».

Un’altra grana riguarda l’acquisizione dei caccia bombardieri F-35. Dopo un anno di chiacchiere il ministro della Difesa non ha ancora deciso se tagliare, o meno, la commessa di 90 velivoli da combattimento per sostituire i 100 che stanno diventando obsoleti. Il 30 maggio Trenta ha dichiarato al Senato che entro il 2022 arriveranno 28 caccia e 13, già consegnati , sono «completamente finanziati». Secondo Silvio Lora Lamia, che segue da esperto il progetto fin dagli anni Novanta, «l’F-35 è nato male come programma militare industriale. È costoso anche nell’ammodernamento e parte dei pezzi di ricambio sono inutilizzabili. Però l’indecisione del governo e soprattutto della Difesa sugli ordini dei prossimi anni creano un grosso problema di pianificazione operativa ai militari per i gruppi di volo e addestramento piloti. E andrà a finire che pagheremo di più». Alla base di Grottaglie dell’aviazione navale per gli F-35 hanno già speso 20 milioni di euro, ma i lavori sono sospesi da due anni. «La famosa relazione costi-benefici è ferma sul tavolo del premier Conte come la Tav» spiega Lora Lamia.

Anche i carri armati Ariete dovrebbero venire sostituiti. I molti interventi di manutenzione aumentano i costi. «L’esercito è a pezzi» osserva con Panorama un ufficiale operativo. Sul tavolo del ministro ci sono vari contratti in attesa di firma, come la tecnologia per il Soldato del futuro, un sistema innovativo per migliorare le tattiche di combattimento e l’incolumità del militare.

Mario Arpino, ex capo di Stato maggiore durante la prima guerra del Golfo, pure lui generale ribelle che non si è presentato alla parata del 2 giugno, è convinto che «i problemi della Difesa sono l’ultima ruota del carro per la politica. Chi è in servizio attivo non lo può dire pubblicamente, ma è sfiduciato, in grande stato di disagio».

Anche per il fiore all’occhiello dell’utilizzo «duale» delle Forze armate nella missione «Strade sicure», che impegna in Italia circa 7 mila uomini, più di tutti i soldati all’estero, ci sono problemi. Il generale Francesco Ceravolo come Cocer dell’esercito, ovvero rappresentante dei militari, ha fatto presente al premier Conte e al ministro Trenta che non vengono pagati gli straordinari. «Circa sei milioni di ore all’anno, di cui solo due remunerate, mentre le rimanenti dovrebbero essere recuperate dal personale (con periodi di licenza, ndr)» ha detto il generale «ma ciò non è possibile a causa di concomitanti impegni operativi». In definitiva, lo Stato deve ai militari di Strade sicure «60 milioni di euro» all’anno. E si tratta in gran parte della truppa, che ha il reddito più basso.

La «rivolta» degli ex generali contro il ministro della Difesa non si limita ai tre ribelli del 2 giugno. Giorgio Cornacchione, che comandò l’operazione «Antica Babilonia» in Iraq, si è scagliato contro l’idea del premier Conte di rinunciare a cinque fucili per delle borse di studio pacifiste. Per il generale Nicolò Manca, ex comandante dei Dimonios della leggendaria brigata Sassari, «la decisione ministeriale di dedicare la parata del 2 giugno al tema dell’inclusione è una notizia da non credere».

Antonio Li Gobbi, ex alto ufficiale che viene dal Genio guastatori, ha attaccato il ministro Trenta prendendo le difese del generale Paolo Riccò, pluridecorato in Somalia e Afghanistan. Quest’ultimo è finito sotto inchiesta interna per avere abbandonato la cerimonia del 25 aprile a Viterbo in segno di protesta per il discorso di un esponente dell’Associazione partigiani, che ha accusato i soldati italiani di avere ammazzato più civili dei talebani.

La responsabile della Difesa si è limitata a dire in Parlamento che «le molteplici attestazioni di stima arrivate a livello istituzionale e dai cittadini per lo svolgimento della festa della Repubblica dimostrano l’infondatezza delle critiche». Però sono pochi gli alti ufficiali in congedo intervenuti a suo favore. L’ex ammiraglio Giuseppe Lertora ha puntato il dito contro «una sorta di lobby diretta contro il ministro» in cui ci sarebbero i generali ribelli del 2 giugno. I veri fedelissimi di Elisabetta Trenta sono gli esponenti dei sindacati ancora non riconosciuti da una legge ad hoc, che hanno ricevuto il via libera dalla responsabile della Difesa. Sinibaldo Buono, neo-sindacalista dell’Aeronautica, ha elogiato «la svolta epocale voluta strenuamente dal ministro».

Sarebbe bene che il ministro condividesse piuttosto la decisione presa cinque anni fa da tutti i Paesi della Nato, su spinta dell’amministrazione Obama, di aumentare le spese per la difesa al 2 per cento del Pil entro il 2024. Oggi il bilancio è poco sopra l’1 per cento e il raddoppio appare impossibile. Non a caso il 17 febbraio, davanti alle Commissioni difesa di Camera e Senato, il capo di Stato maggiore, generale Enzo Vecciarelli aveva lanciato l’allarme spiegando che, in caso contrario, «dovremo rinunciare non solo all’efficienza di molti sistemi ma, già dal prossimo futuro, anche a interi profili capacitivi».

L’agenda recondita dei Cinquestelle sembra puntare a una sorta di smilitarizzazione dimostrata dalla censura al video considerato «combat» per il 4 novembre, festa delle Forze armate, manifesti della Difesa per il 2 giugno e altre ricorrenze con uomini in divisa; senza un’arma, però, è come se usassero le cerbottane per combattere e fossero una protezione civile rafforzata. Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi difesa e consigliere per le politiche di sicurezza del ministro dell’Interno Matteo Salvini, ha scritto in un editoriale: «Tutti elementi che indicano una visione assai limitata del comparto Difesa, una visione pacifista da oratorio e “casa del popolo”, ma oggi quanto meno inadeguata anche solo a comprendere le sfide attuali».

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