Le conseguenze della crisi argentina sull'Italia

Attenti, la crisi argentina non è uno scherzo. Non sarà catastrofica come quella del 2001, che aveva portato al fallimento dello stato, ma peggiora col passare delle ore: nella sola giornata di ieri la Banca centrale argentina ha perso 250 milioni di dollari delle proprie riserve. L’inflazione sale – ben oltre quanto dichiarato dal governo – e il paese scende, pian piano, in una spirale che può sembrare un problema contabile di uno stato sudamericano. Ma non lo è, come spiega a Panorama.it Domenico Lombardi, direttore del programma economico del think tank canadese CIGI ed ex membro del consiglio esecutivo del Fondo Monetario Internazionale.

La crisi argentina mette a rischio anche l’Italia?
Sì, anche se tra i due paesi non c’è una connessione diretta (gli operatori finanziari, dopo la crisi del 2001, hanno cercato di non rischiare troppo in Argentina). Bisogna fare una premessa: l’Argentina ha la peggiore economia del G-20. Non è stabile, ha variabili economiche preoccupanti e una governance inadeguata. Il governo ha un contenzioso aperto con il Fondo monetario internazionale (Fmi).

Perché?
Le relazioni con il Fmi sono pessime sin dalla crisi dei primi anni 2000, ma sono deteriorate ulteriormente perché i dati che l’Argentina fornisce non sono affidabili. È un caso unico nel G-20, forse al mondo. Diciamo pure che il Fmi ritiene che i dati ufficiali sull’economia argentina siano ritoccati: l’inflazione, ad esempio, è più alta di quanto dichiarato.

Quanto vale davvero la moneta argentina?
Il tasso di cambio ufficiale è controllato dal governo. Perciò bisogna guardare al mercato nero dei cambi, il cosiddetto “blue dollar” (dollaro blu). Può sembrare un paradosso, ma è il mercato nero a riflettere lo stato reale dell’economia argentina: non risente dell’intervento diretto dello stato, perciò tiene conto dello stato del paese, con una valutazione a tutto tondo. È un mercato fiorente, perché le prospettive di precarietà spingono gli argentini che non vogliono perdere i propri risparmi a cambiare i loro pesos in dollari.

Ma più persone cambiano pesos in dollari, più i pesos perdono valore.
Esatto, è un circolo vizioso. I cittadini vogliono i dollari e pur di non impoversi sono disposti a pagarli un poco di più, perciò diventa sempre più costoso cambiare pesos che, col tempo, valgono sempre meno.

Chi ne sta risentendo?
I paesi vicini, come il Brasile, subiscono un danno diretto, perché hanno grossi rapporti commerciali con l’Argentina. Ma c’è una coincidenza che danneggia anche noi e i paesi emergenti: gli Stati Uniti stanno crescendo a ritmo sostenuto (al di là del dato numerico, i nostri calcoli dicono che la ripresa è sempre più solida).

Cosa c’entra la ripresa dell’economia degli Stati Uniti?
Se l’economia va bene, è legittimo aspettarsi che la Banca centrale americana (Fed) alzi i tassi d’interesse. Quando lo farà, investire negli Stati Uniti diventerà più conveniente. Se poi ci si mette lo schock argentino, un investitore farà in modo di togliere i soldi che aveva investito nei paesi emergenti per dirigerli verso gli Stati Uniti. Non dimentichiamo che gli operatori, spesso, vanno per schemi mentali, del tipo “le economie latinoamericane, da oggi, sono rischiose”.

A questo punto viene coinvolta anche l’Italia.
Ogni turbolenza sui mercati aumenta l’avversione al rischio degli investitori. Perciò, anche se non abbiamo collegamenti diretti con l’Argentina, la crisi a Buenos Aires rende gli operatori finanziari più restii a investire. Perciò, se aumenta lievemente lo spread, se la crescita resta debole e l’inflazione bassa (contribuendo all’accumulo del debito), noi dobbiamo ritenerci a rischio. Sarà più difficile trovare qualcuno disposto a finanziarci e il nostro debito pubblico sarà ancora più insostenibile. Le agenzie di rating se lo aspettano, infatti hanno dato una valutazione negativa delle nostre prospettive a breve termine. Noi siamo tra le economie avanzate, ma questo non ci mette al riparo: quando torna l’incertezza, nessuno vuole investire in paesi che non sono virtuosi.

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