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May 24 2018
Purtroppo Zinédine Zidane parla poco. Perché in questi anni sarebbe stato bello chiedergli continuamentee progressivamente di fare un update sulla frase che disse a L'Equipe quando era appena diventato allenatore del Real Madrid B, nel 2013: "Sono tante le cose che ancora non so. Allenare è un mestiere duro, un mestiere che si impara con il tempo".
Che cosa ha imparato che già non sapeva? Soprattutto: che cosa davvero deve imparare uno che può diventare il primo allenatore di sempre a vincere tre volte consecutive la Champions League? Questo rischia di accadere alla 23 circa di sabato 26 maggio, a Kiev, al triplice fischio della finale.
Due le ha vinte battendo in finale l'Atletico Madrid ai rigori e la Juventus con un secondo tempo memorabile della sua squadra. Alla terza stagione in panchina è vero che è riuscito in un'impresa difficile per un allenatore del Real, ovvero non vincere mai la Liga, ma è altrettanto vero che se porta a casa la tredicesima coppa Campioni dei Blancos tutto il resto non conta più.
È cambiato molto anche il giudizio degli altri. Perché per due stagioni e mezza, Zidane è stato considerato solo il grande gestore di un gruppo dagli ego giganteschi e, spesso, incontrollabili. Dicevano: "Uno con il suo carisma e la sua storia è l'unico che può dire ai Galacticos del Real che cosa fare evitando di essere preso in giro". Una convinzione maturata oltre che dalla logica, anche dalla sua stessa voce: "Negli spogliatoi urlo raramente, perché credo di avere un'autorità naturale nei confronti dei giocatori" disse a France Football poco dopo essere diventato allenatore.
Eppure quest'anno bisogna raccontare una storia diversa: non è un gestore e basta, è un allenatore. Pratico, versatile, capace di preparare al meglio le grandi partite e di far cambiare alla sua squadra strategia e disposizione in campo in funzione dell'avversario di turno. Certo, sarebbe stato più complicato partire da una squadra normale: avrebbe significato più lavoro tattico, più lavoro tecnico, più lavoro strategico. Qui, invece, il lavoro è stato diverso: è partito dalla testa per arrivare alle gambe.
"Voglio che la mia squadra giochi un buon calcio, con un portiere che sappia far par partire l'azione con i piedi, possesso palla e passaggi rapidi. L'obiettivo è arrivare il prima possibile e con il maggior numero di giocatori davanti alla porta avversaria". Il concetto base del calcio di Zizou è semplice, condivisibile, non contraddittorio con ciò che è stato lui da calciatore. Perché la liberazione del talento è figlia della flessibilità, secondo Zizou.
Il Real, oggi, è una squadra elastica, camaleontica. Fatta di genio, di classe, di idee estemporanee in un gioco organizzato. Non bisogna essere brillanti per essere i migliori. Bisogna essere migliori per sembrare brillanti. Il Real è la miglior squadra d'Europa per distacco nella capacità di massimizzare il risultato. Se questo non è figlio di un grande allenatore, allora è difficile capire che cosa faccia un allenatore.
(Articolo pubblicato sul n° 22 di Panorama, in edicola dal 17 maggio con il titolo "L'uomo che volle farsi Real")