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Cantando le vertebre della tua schiena

DIARIO DEI GIORNI DISPARI

15 settembre '16 - E c’è quel canuzzo, là fuori, che abbaia quando un’auto si avvicina al suo cancello. Abbaia e ti sveglia, Agnese. E tu rialzi la testa da dove l’hai abbandonata in cerca del sonno, riapri gli occhi e guardi. Me e l’intorno. Ti tranquillizzo, alzo un po’ il tono della ninna nanna e ti rituffi nel mio abbraccio. Ma non sei rilassata, ancora. La schiena è tesa, inarcata, come quelle dei gatti pronti a graffiare: lo sento, mentre ti accarezzo.

Lo sento e mentalmente conto i nodi delle tue vertebre. Così nuovi e puntuti, ma innocenti. Così forti già. Sporgenti e capaci. Di tenerti su e di farti andare. Così necessari e sorprendenti. Arrivo a contarne sette, prima che la quiete ti riprenda. Li conto e prego.

Prego il sole che non manchi ai tuoi risvegli. E che non la smetta di dipingerti i capelli: biondi, sottili e lunghi come fossero i suoi raggi. E che un giorno si faranno spettinare dagli abbracci di qualcuno o dal vento di una qualche primavera, in una qualche città del mondo (primo nodo).
Prego madre terra che non ti abbandoni mai col suo odore brumoso e scuro. Che te lo lasci dentro, sotto pelle e sotto le unghie. Quel profumo di richiamo e di respiro. Quel profumo che ti accompagnerà verso casa, anche quando sarai al buio, anche quando sarai lontana. Quell’odore di cose vere e buone, come il pane. Quell’odore di radici vive, che come braccia penetrano il suolo alla ricerca dell’origine, la tua. Fino a scoprire la prima parola che con mamma ci siamo scambiati, generandoti (secondo nodo).
Prego il cielo che non ti tradisca nel suo mutare, di colore e forma. Che abbia sempre il coraggio e l’orgoglio di abitare nei tuoi occhi, così larghi e indefinibili. Che ti guidi sempre, anche portandoti in posti sconosciuti. Che il suo essere infinito ti tenga compagnia, così che tu possa sempre dire a mamma, a me o a chi ami: “Siamo lontani, ma è lo stesso cielo che ci tiene” (terzo nodo).
Prego le parole che siano leggere con te, sia quando dovrai ascoltarle sia quando dovrai usarle. E che contengano sempre un po’ di musica. Anche le più spiacevoli, anche la più malinconica. Perché con la musica tutte le parole sono più digeribili. E se devono avere un senso, sia quello dell’ironia, per non farti prendere troppo sul serio, per darti la metrica esatta delle situazioni, per lasciarti libera di vivere ogni giorno della vita (quarto nodo).


Prego il fato che ti faccia incontrare Socrate, un giorno. Sulle pagine di un libro, sul tablet di un’amica, nel testo di una canzone. E che il Sileno ti suggerisca la regola base (la più comune, la più complessa) per stare al mondo: conoscere se stessi. Farlo è togliersi dal viso tutte le maschere che gli altri (genitori compresi), spesso con la nostra complicità, amano buttarci addosso: per convenienza, opportunismo, convenzione, superficialità. Farlo è saper andare liberamente dove si vuole, anche da soli magari, ma mai dove non si vuole che gli altri ci portino (quinto nodo).
Prego il tempo che con te si conceda tutto, senza sconti, senza remore, senza pause. E che ti lasci addosso il suo passare. Che si faccia sempre trovare, tra una cosa e l’altra. E che non corra troppo in fretta, quando vorrai baciare una persona o dirle “ti voglio bene”. Anche quando dovrai cogliere l’attimo, prendere un treno, dare una risposta. Anche quando avrai da stare ferma a riflettere, scegliere e decidere (sesto nodo).
Prego la strada che ti stia sempre davanti. Anche con salite e discese e curve cieche. O davanti a un bivio. Ma prego che ti porti sempre da qualche parte. Anche quando ti toccherà saltare da un posto all’altro, da una sponda all’altra. Prego che su quella strada tu impari a camminare sola, nonostante a volte mi sentirai dire che i tuoi passi non mi convincono. E tu riderai di me, come quando da piccola, senza saper ancora camminare, tentavi l’arrampicata alla scala della mansarda. Prego di saper cogliere tutte le sfumature del tuo andare, senza essere io a contare i tuoi passi o a indicarti la meta, ma provando piacere, Agnese, per tutta la strada che avrai fatto per arrivare fino a lì (settimo nodo).

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