Non è fantapolitica. L’ex premier italiano a capo dell’Ue nel 2024 potrebbe risollevare le sorti del Vecchio Continente precipitate con la presidenza di un’ormai inadeguata Ursula von der Leyen. E da questa presenza «forte» anche Giorgia Meloni e il suo governo trarrebbero vantaggio.
È stata forse l’anteprima del suo prossimo discorso sullo stato dell’Unione (europea). Ci riferiamo alle parole che Mario Draghi ha pronunciato il 13 luglio scorso a Cambridge, Massachussets, al National bureau of economic research (Nber). Una riflessione passata però sotto traccia; e come mai? Come direbbe Elly Schlein, segretaria del Pd, perché così non ci «hanno visto arrivare».
Si fa strada, per ora ben nascosta, l’idea che Giorgia Meloni potrebbe dopo le elezioni europee del 2024 proporre lui, il premier che ha traghettato l’Italia fuori dal Covid, come nuovo presidente della Commissione al posto di una sempre più balbettante Ursula von der Leyen. Ci sono ostacoli esterni – a quel posto mira di nuovo la Germania che, perdendo peso nel mondo, vuole arroccarsi nel continente (e finché Christine Lagarde resta a capo della Banca centrale europea, Berlino pretende il contrappeso) – e ostacoli interni. Non è un mistero che Antonio Tajani, ora erede di Silvio Berlusconi e capo della Farnesina, voglia concludere il suo sogno europeo (è stato Commissario e presidente del Parlamento) insediandosi al vertice di palazzo Berlaymont. Qualcuno ha letto il suo ostracismo a Marie Le Pen e le punzecchiature alle possibili alleanze della Lega a Strasburgo in questa chiave. Meloni affida ai risultati elettorali del prossimo anno sia in Italia che in Europa, da presidente dei Conservatori, il consolidarsi della sua ascesa al potere.
Manfred Weber, presidente del Ppe, non ne può più della fu «maggioranza Ursula»: la prossima Commissione nascerà da un’alleanza tra Popolari, Conservatori e quel che resta di Renew, il raggruppamento liberal di cui fa parte un Emmanuel Macron, presidente francese sempre più affannato e appannato. Weber sa anche che la sua Cdu tedesca deve far dimenticare molto in fretta in Germania l’esperienza di Ursula von der Leyen e vuole cogliere l’occasione per cancellare del tutto l’eredità di Angela Merkel.
Con queste promesse politiche, ci sono le condizioni per una mossa del cavallo italiana. La storia si diverte a ripetersi. Potrebbe succedere ciò che accadde nel giugno 2011 quando Silvio Berlusconi riuscì a convincere Nicolas Sarkozy a far salire Draghi al vertice della Bce. Molti pensano che il via libera a Draghi venne in realtà da Washington. Oggi il quadro è assai simile; è indispensabile per l’Europa ricostruire i rapporti con gli Usa su un piano di maggiore equità dopo la guerra in Ucraina. La premier Meloni, ben vista oltre Atlantico, potrebbe intestarsi l’operazione Draghi, con interessanti ricadute interne.
A Cambridge, Draghi ha disegnato il quadro dell’Europa leggendo, quasi fosse un aruspice, il futuro nelle viscere del Continente che si sta contorcendo nel mal di pancia per tante cause: per l’inflazione che la presidente Lagarde cura dalla Bce con dosi da cavallo – non condivise – di rialzo dei tassi; per la perdita di peso e di stabilità della Francia; per la difficoltà gigantesca della Germania che, incapace di cambiare il proprio modello economico, deve contrastare l’offensiva degli Stati Uniti decisi a riprendersi il controllo delle relazioni economiche sulla Cina.
Janet Yellen, segretario al tesoro Usa e già presidente della Federal Reserve, cinque giorni prima che Draghi parlasse nella cittadina americana della costa Est è volata a Pechino a incontrare il vice di Xi Jinping, He Lifeng per consolidare i rapporti commerciali che nel 2022 hanno registrato tra Washington e la Cina il picco massimo: 690,6 miliardi di dollari. Yellen ha detto chiaramente: la politica estera, la guerra, le schermaglie su Taiwan lasciamole da parte; qui c’è per entrambi del lavoro da fare: intanto spartiamoci il mondo poi si vedrà nel secondo tempo chi vince.
Nota Giulio Sapelli, storico dell’economia (l’ultimo suo saggio è Ucraina anno zero, una guerra tra mondi, uscito per Guerini e Associati): «La politica estera non deve essere un fattore di decoupling, ovvero di “disaccoppiamento” rispetto agli affari, Yellen lo ha ben chiarito. Gli americani vogliono parlare ai cinesi avendo l’esclusiva e a modo loro. Non come fa la Russia o come ha fatto sin qui la Germania. La guerra ha questa finalità. Ecco perché la Germania deve essere messa sotto controllo».
Se questo è il quadro si capisce perché l’ex presidente della Bce a un anno esatto dall’uscita da palazzo Chigi abbia scandito la sua ricetta su come l’Unione può riuscire a sopravvivere prima di tutto a sé medesima invocando più politica. L’Europa si è immaginata e costruita come «eurocentrica» (cioè sviluppata attorno alla moneta) in preda a reciproci egoismi e diffidenze, ma oggi serve altro.
Serve l’unione politica, puntare dritto verso gli Stati uniti d’Europa che per Draghi nascono da questa esigenza: «Le strategie che in passato avevano assicurato la nostra prosperità e sicurezza – affidarsi agli Usa per la sicurezza, alla Cina per le esportazioni e alla Russia per l’energia – oggi sono diventate insufficienti, incerte o inaccettabili. Le sfide del cambiamento climatico e della migrazione non fanno che aumentare il senso di urgenza per migliorare la capacità di azione dell’Europa».
Anche il luogo dove Draghi ha parlato non è secondario. Ha scandito l’ex premier: «Il Nber è un pilastro del pensiero economico mondiale. Avete contribuito a rendere il mondo un posto migliore. Vorrei anche rendere omaggio a Martin Feldstein. In quanto capo consigliere economico del presidente Ronald Reagan, ha guidato un cambio di paradigma nella relazione tra i governi e i mercati, e non solo negli Usa, ma nel mondo». Eppure l’ex consigliere di Reagan è stato il più feroce, tra i tanti oppositori statunitensi alla nascita dell’euro, ma è stato anche quello che le ha azzeccate quasi tutte. Nel 2010 sentenziò: «L’euro riporterà la guerra in Europa, Grecia e Portogallo falliranno e la Grecia se vuole salvarsi dovrebbe abbandonare l’euro e ricominciare a crescere, anche con una valuta debole».
Draghi ha ammesso che non tutto nella costruzione dell’euro è andato per il verso giusto così come «a metà degli anni Duemila l’Ue ha scelto di allargarsi all’Europa orientale senza riformare le sue regole decisionali, probabilmente indebolendo invece che rafforzando la sua natura politica». E mentre Ursula von der Leyen ripropone la sua ricetta sul green deal, Draghi rivendica il suo «Whatever it takes» e sottolinea che bisogna cambiare tutto perché «proprio come l’euro non può essere stabile se gran parte dell’unione monetaria sta fallendo, il cambiamento climatico non può essere risolto da un Paese che riduce le sue emissioni di carbonio più velocemente di un altro».
Parla già da presidente della Commissione, Draghi? Ci sono curiose coincidenze. Quando doveva salire al vertice della Bce la Francia pretese che Lorenzo Bini Smaghi, allora nel board dell’Eurotower, si dimettesse per accasarsi nella banca francese Societé Generale. Oggi potrebbe avere un risarcimento. Con Fabio Panetta tra i più critici verso Lagarde, che lascia la Bce per diventare dal primo novembre governatore della Banca d’Italia (Panorama lo aveva anticipato in tempi lontani) nella Banca europea si libera un posto. Giorgia Meloni vorrebbe mandarci Piero Cipollone, il numero due di Bankitalia, ma la Lagarde vuole una donna e possibilmente filo-francese. Chi? Veronica De Romanis sposata Bini Smaghi! Sarkozy per fare posto a un italiano cacciò il marito, oggi per fare posto a un italiano (sempre Draghi) si potrebbe promuovere la moglie.
Ma c’è un altro gioco interessante all’ombra della candidatura «fantasma» dell’ex premier italiano e riguarda la Lega. Matteo Salvini è diventato iperattivo: si avvicinano le elezioni europee e se Draghi va a Bruxelles gli uomini più vicini a lui potrebbero avere luce riflessa. Tra questi c’è Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia, che si muove in sostanziale continuità, come Meloni, con la «Draghinomics». In via Bellerio questo risiko europeo agita un po’ le acque. Il fiato di Draghi sul collo di Bruxelles si sente, basta misurare la fretta che c’è di rinnovare il patto di stabilità.
A cominciare da Paolo Gentiloni, commissario all’Economia più Pd che italiano: il quale sa benissimo che se Giorgia Meloni s’intesta il nuovo presidente della Commissione assai gradito a Washington e forse indispensabile per evitare che l’Europa faccia la fine del vaso di coccio tra i due vasi di ferro (Cina e Stati Uniti), sottoscriverebbe una polizza a vita per Palazzo Chigi.