Il fascino della «Creatura» nata dalla fantasia di Mary Shelley è ancora potentissimo (come dimostrano film, saggi e comics a lui dedicati). Perché il nostro sogno è sempre quello: sostituirci agli dei dando vita a esseri potenziati, cyborg, transgender… E, come questi, sconfiggere la morte.
Diedi inizio alla creazione di un essere umano. Poiché la minutezza delle parti intralciava enormemente il mio lavoro, decisi, contravvenendo alla mia prima intenzione, di creare un essere di dimensioni gigantesche, alto, cioè, circa due metri e 40, e di una taglia in proporzione…». Così Victor Frankenstein in persona, nel romanzo di Mary Shelley del 1818, raccontava il percorso che l’aveva condotto a «dare vita» alla sua Creatura. Un gigante, dotato di una mole e di una forza spaventosa. Ora, magari Vin Diesel con il suo metro e 82 di altezza non è a tutti gli effetti un colosso, ma la sua massa muscolare compensa ampiamente ogni altra carenza. In Bloodshot, il nuovo film del regista di fantascienza David S. F. Wilson – ora disponibile in digitale – Diesel è a tutti gli effetti una versione ultramoderna e parecchio bellicosa della Creatura di Mary Shelley.
Protagonista è Ray Garrison, un soldato altamente addestrato che, dopo essere stato ucciso, viene riportato in vita e trasformato in una spaventosa macchina per uccidere. A farlo rinascere sono le nanotecnologie, microparticelle che nuotano nel suo sangue e gli consentono non solo di varcare il confine tra la vita e la morte, ma pure di godere di capacità sovraumane. Bloodshot ha la pelle grigiastra del mostro di Frankenstein e la letalità di un Robocop. Sia il poliziotto robotico di Detroit che l’ex militare redivivo impersonato da Vin Diesel, dopo tutto, sono cyborg. Cioè, secondo la definizione di Manfred E. Clynes (che coniò il termine nel 1960), «uomini migliorati».
Sia Bloodshot sia Robocop hanno goduto negli anni di notevole successo nella cultura popolare. Il cyber poliziotto ha conquistato le folle a partire dal 1987 grazie al film di Paul Verhoeven, poi è diventato anche un fumetto di notevole spessore grazie all’estro di Frank Miller, uno dei più grandi autori di comics (i suoi racconti con Robocop protagonista sono ora raccolti in volume dall’editore Saldapress). Bloodshot, invece, nasce all’inizio degli anni Novanta negli albi a fumetti dell’editrice americana Valiant. Ha avuto fortune alterne, fino a che, non molti anni fa, il bravissimo Jeff Lemire non ha deciso di prendere in mano il personaggio trasformandolo in un cult (in Italia tutti i cicli narrativi di Bloodshot sono disponibili presso Star Comics).
Al di là delle fortune commerciali, però, queste figure hanno il pregio di essere drammaticamente attuali. Benché nate tra fine anni Ottanta e inizio Novanta, parlano del presente. Naief Yehya, nel saggio ormai classico Homo Cyborg (Eleuthera), spiega che «il cyborg rappresenta la fusione, la combinazione o la relazione parassitaria tra la sfera biologica e quella culturale, tra i prodotti dell’evoluzione e quelli della fabbrica». Uomini migliorati, dunque, i quali però sono allo stesso tempo un po’ più e un po’ meno che esseri umani. Hanno pelle, sangue e sembianze umane, ma sono in parte macchine. Non sono esseri creati, ma «ricreati». La tecnologia si innesta nella natura per renderla più efficiente: è il sogno del transumanesimo divenuto realtà. Questa è la cifra del nostro presente ai tempi della rivoluzione digitale.
Bloodshot e Rocobop, in fondo, non sono altro che edizioni aggiornate di Frankenstein. Rappresentano il tentativo dell’uomo di migliorare la creazione. O, peggio, di appropriarsene per i suoi scopi. Come spiega Jean Clair nello splendido Hybris (Johan and Levi editore), la Creatura di Frankenstein «viene sempre designata come “il mostro”: resta “innominata”, come le creature malefiche che ci si rifiuta di chiamare per nome. È un essere che è sfuggito alla necessità insita negli uomini, secondo la volontà di Dio, di denominare le creature».
Sebbene siano passati oltre 200 anni dal «moderno Prometeo» di Mary Shelley, sembra che l’uomo non sia cambiato affatto. Continua ad avere un solo desiderio: vincere la morte. Nella sua arroganza (la tracotanza che i greci chiamavano appunto hybris), l’uomo desidera sostituirsi al Creatore, cioè a Dio, e pretende di dare la vita. Il suo gesto creativo, tuttavia, non è gratuito, non è un dono motivato dall’amore (come nel caso della creazione divina secondo i cristiani). È, piuttosto, un atto di sfida al cielo: come Prometeo, l’uomo vuole beffare gli dei approfittando della tecnica.
I risultati, però, sono tutt’altro che positivi. Sia Bloodshot che Robocop – proprio come la creatura di Frankenstein – sono esseri tormentati, ibridi. La tecnologia li rende strabilianti ma pure mostruosi, e il loro più grande desiderio è giungere alla piena umanità. La creazione tecnologica, in realtà, non «migliora» gli uomini, anzi li peggiora. Rendendoli più efficienti e performanti, li priva appunto di umanità. Lo aveva già capito, a metà del Novecento, Georges Bernanos (leggere per credere la raccolta di scritti Lo spirito europeo e il mondo delle macchine, Oaks editrice), quando scriveva che la civiltà delle macchine «non minaccia soltanto le opere dell’uomo; minaccia l’uomo stesso; è capace di modificarne profondamente la natura, non già aggiungendole ma togliendole qualcosa». Che cosa toglie all’uomo? La sua parte divina. La tecnologia interviene sull’individuo e ne migliora le prestazioni ma, allo stesso tempo, lo trasforma in un essere artificiale. Una macchina che, come tutti gli strumenti tecnologici, serve a un solo scopo: soddisfare i desideri del suo creatore. Robocop, Bloodshot e in parte anche Frankenstein sono, nei fatti, degli schiavi.
Il messaggio antico di tutti questi personaggi è sempre lo stesso: se l’uomo cancella Dio e si sostituisce a lui, perde la libertà. Non diviene padrone, ma servo dei propri desideri. Se ci si riflette, è esattamente quello che sta accadendo ai giorni nostri. Grazie alle innovazioni tecnologiche, ci crediamo padroni dell’esistenza. Abbiamo svuotato il cielo da ogni divinità, e pensiamo di poter generare la vita. Vogliamo far nascere i bambini in laboratorio tramite l’utero in affitto, pensiamo di «avere il diritto» di modificare i corpi in base ai desideri di chi li abita (uomini che scelgono di diventare donne e viceversa). Non è un caso che un’altra, recentissima incarnazione di Frankenstein si trovi nel romanzo Frankissstein (Mondadori) di Jeanette Winterson, autrice da sempre attenta alle tematiche gender. Il protagonista del suo libro è Victor Stein, scienziato ambizioso che si occupa di intelligenza artificiale e intreccia una relazione amorosa con un medico transgender di nome Ry.
Riecco il tema dei temi: l’uomo (la creatura) vuole farsi Dio (il creatore). Ma il prodotto dei suoi sforzi è imperfetto, e mostruoso, poiché egli agisce per interesse, profitto, ambizione, non per amore. Lo stesso amore che Frankenstein, Robocop, Bloodshot e tutti i loro simili cercano disperatamente e spesso senza riuscirci. Lo stesso amore che cerca ciascuno di noi, quando alza gli occhi e, trovando il cielo vuoto, si sente gelare dalla solitudine.