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Tajani: "I populisti vogliono affondare l'Europa"

L’Europa sta per sprofondare, sotterrata da populismi e strepitii. Antonio Tajani cerca rifugio nel latinorum: «Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata». Uomo d’altri tempi: quelli dei moderati. La voga sovranista impone modi stentorei e sveltezza. Lui, prima di rispondere a una domanda, alza gli occhi al cielo e corruga le sopracciglia: «Qui si cerca l’iperbole a tutti i costi» elabora quasi sottovoce il presidente del Parlamento europeo. «Io, vista la situazione d’inerzia, preferisco citare Tito Livio. Mia madre, del resto, era professoressa di latino e greco». 

Nel calendario delle cancellerie del Vecchio continente, una data era cerchiata di rosso: 28 giugno 2018, Consiglio europeo di lame e coltelli. Nell'agenda dei lavori un’unica impellenza: l’immigrazione. Ecco, proprio quel giorno per Tajani è cominciato a Bruxelles con una mattina qualsiasi. Sveglia, giornali, doccia. Poi mezz’ora di camminata: dal bilocale in affitto a Ixelles a Place du Luxembourg. 

La temuta sede del Parlamento europeo è un emiciclo di vetro e acciaio, dove tutti sorridono a mezza bocca. Tajani, 64 anni, vi ha messo piede per la prima volta nel 1994. Per sbaglio: «Dovevo essere candidato in Puglia, ma ci fu un errore nella raccolta delle firme». Due mesi dopo arrivano le elezioni a Bruxelles. La capitale belga allora è il refugium peccatorum dei dinosauri della politica. Tajani, invece, è un arrembante giornalista folgorato sulla via di Arcore. L’inciampo elettorale è la sua fortuna. «Destino, forse. Mio padre era ufficiale della Nato. Quando avevo sei mesi, siamo andati a vivere in Francia. Sono cresciuto in un ambiente internazionale». 

Siede ininterrottamente a Bruxelles da 24 anni: «Nessun italiano ha fatto più mandati di me». Un passo alla volta, è giunto in vetta. A gennaio  2017 è diventato presidente dell’Europarlamento. Dal suo discreto ufficio al nono piano vede l’Ue farsi e disfarsi. E questo 28 giugno è il giorno del redde rationem. All'armi: immigrati e nazionalismi, populisti e moderati, Italia e resto del mondo. 

«Che casino...» sospira Tajani tra un saluto alla sua prima segretaria, venuta con un bel neonato in visita pastorale, e il commiato a un gruppetto di stagisti. «Qui casca tutto» ammette. «Le conseguenze della disputa sui migranti possono essere enormi: a partire dall’economia. Giocano con il fuoco, per qualche voto in più. Ma strillare non serve a niente». Si riferisce al governo italiano? «A tutti. Tutti ossessionati dal consenso immediato. Senza alcuna visione: non dico di lungo, ma nemmeno di medio periodo».

Anche nei momenti topici, però, cerimoniale e incombenze sono in agguato. Alle dieci, Tajani inaugura una sala dedicata al patriota sloveno Jože Pucnik. A seguire, la firma delle leggi approvate dal Parlamento: «L’Italia deve capire che qui bisogna pesare. Non può continuare a improvvisare. Servono presenza, strategia e funzionari capaci. Invece mandavamo solo autisti e uscieri. La Germania conta più degli altri perché ha una macchina efficiente. Tutelano i loro interessi meglio degli altri: difendono il loro paese e non mollano mai». 

Chiude la porta del suo ufficio. Moquette beige. Poltrone di pelle nera. Su un mobiletto, le foto di famiglia con la moglie e i due figli. Inforca gli occhiali e afferra lo smartphone. Inevitabile origliare: «Luigi Di Maio ha chiesto alla commissaria se poteva usare i fondi Ue per il reddito di cittadinanza» spiega al telefono. «Ma lei gli ha detto di no». Si siede alla scrivania. Appoggia il cellulare sul tavolino. «Più facile chiudere un porto che trovare dieci miliardi. Il governo ha promesso reddito di cittadinanza, abolizione della Fornero e flat tax. Ma dove sono i soldi? L’Italia fa di necessità virtù. La battaglia sui migranti è gratis, ma pericolosissima».

Tajani si rialza per aprire la porta. Entrano portavoce, consiglieri e assistenti. Si siedono attorno alla sua scrivania, per definire gli ultimi dettagli del discorso che il pomeriggio terrà al Consiglio europeo. Mezz’ora dopo, marciano tutti su Rue de Luxembourg verso Palais des Académies, l’elegante palazzo neoclassico che ospita il prevertice del Ppe. Cosa dicono i leader dell’Italia? «È un oggetto misterioso. Sono molto preoccupati. Pensano che il governo non durerà tanto». Il premier, Giuseppe Conte, per loro è una garanzia? «Si percepisce la matrice salviniana sull’esecutivo...». Il presidente del Consiglio sostiene che, dopo aver battuto i pugni sul tavolo, finalmente ci rispettano. «Considerazione prematura. Il rispetto si conquista negli anni». Dice che il trattato di Schengen è in pericolo. «L’Europa ha 20 milioni di piccole e medie imprese. Le barriere interne porterebbero un danno di almeno un punto di Pil».  

Dietro le transenne, Palais des Académies è un’assembramento di giornalisti. Tajani ai microfoni ribadisce la sua linea: rafforzare le frontiere, stabilizzare la Libia, centri di raccolta per filtrare rifugiati e migranti economici, che non devono arrivare. «E a lungo termine serve un piano Marshall per l’Africa. Nei prossimi giorni andrò in Libia e in Niger» annuncia. Al primo piano, nella Galerie de Marbre, è imbandito un enorme tavolo rettangolare. I leader pranzeranno qui. Tajani siede tra il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, e il premier ungherese, Viktor Orbán, vessillifero del gruppo di Visegrad. I ribelli del Vecchio continente: insofferenti alle regole, intransigenti sui migranti e indicati come alleati da Salvini alle prossime elezioni europee. 

Sorrisoni, pacche, abbracci. Ma l’aria è tesa. Tutti aspettano l’arrivo di Angela Merkel: tenutaria dell’ordine sovranazionale. «L’immigrazione le sta creando problemi enormi. Ha combattuto tante battaglie e ha molti nemici: è stata troppo germanica, ma ha tenuto in piedi l’Europa. Abbiamo ancora bisogno di una leader come lei». La Cancelliera sembra sempre molto austera. «È molto più simpatica di quanto appaia». Vi sentite spesso? «Soprattutto per sms. Lei risponde subito: cinque minuti al massimo». Prende il telefono. Digita Angela nella stringa di ricerca. Il primo messaggio è del 24 settembre 2017. Tajani si complimenta per la vittoria alle elezioni. «Dear Angela...». Lei ringrazia e rinvia all’imminente rendez-vous. Firmato: A. M. 

Brusìo. Dalla scalinata appare  lei: pantaloni neri e giacca verde bottiglia. Sguardo fisso, passo lesto, entra nella sala allestita per il pranzo. Convitati al completo. Le pesanti porte della Galerie de Marbre si chiudono.    

Prima del consiglio, Tajani incontra Conte: «Persona garbata. S’è creata un buona intesa, per una collaborazione futura. Ma bisogna vederlo alla prova dei fatti». Con lui c’è anche il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi: «Un dignitario europeo». Lui sì, una garanzia. «Non garantisce, ma agevola». Dopo un altro summit bilaterale con Pedro Sánchez, premier spagnolo, Tajani fa il suo intervento, a porte chiuse, in Consiglio.

Alla fine, lo attende la rituale conferenza stampa. Fila di domande in italiano, inglese e francese. L’ultima è quella di un giornalista radiofonico di Madrid: «Gli arrivi sono calati, perché continuare a parlare di emergenza?». Il presidente, in spagnolo, spiega: «Gli sbarchi possono aumentare o diminuire. Ma c’è un problema. Nel 2050 ci saranno 2,5 miliardi di africani. Cambio climatico, povertà, terrorismo, guerre civili: perché non dovrebbero partire? L’Europa però non è un supermarket del diritto d’asilo». 

Breve riunione con i collaboratori nel bar del Centro stampa del consiglio. Poi in macchina, verso l’aereoporto di Bruxelles. Tajani si toglie la cravatta blu a pois bianchi. Si lascia andare sul sedile della berlina. Lo chiamano i maggiorenti di Forza Italia. È appena diventato vice presidente del partito. «Credo che sul mio nome, a parte Giovanni Toti che storce la bocca, nessuno possa obiettare». Bisogna rinnovarsi. «Forza Italia deve ripartire dal Sud e dai giovani: due fronti dimenticati dagli altri. Poi partiremo con l’offensiva al Nord».  

Il volo per Fiumicino è in ritardo. La saletta vip è deserta. Le telecamere interne del Consiglio europeo l’hanno inquadrata mentre discuteva con il premier greco, Alexis Tsipras: la Troika ha salvato Atene? «Non è un successo politico, ma almeno alcune emergenze sono state risolte. Io sono per il rigore, non per l’austerità». Tsipras, per festeggiare la fine della crisi, ha indossato per la prima volta la cravatta: «È l’emblema dei populisti: al governo diventano moderati. Il potere ti porta a essere più razionale e concreto» ragiona mentre addenta una tartina con il patè d’olive. In Italia, però, non hanno ammorbidito i toni. Anzi. Matteo Salvini, ministro dell’Interno, sull’immigrazione continua a battagliare: «Non condivido il linguaggio, ma ha posto un problema che esiste: hanno scaricato l’onere sull’Italia. Solo adesso che è esploso in Germania s’è potuto aprire il dibattito».

Forza Italia è il Ppe italiano. Salvini, invece, prepara per le prossime elezioni europee di giugno 2019, una Lega delle Leghe arcipopulista: «Cambia poco. A Bruxelles il Carroccio non ha mai votato per me. Andremo orgogliosamente da soli, per la nostra strada. Gli unici che hanno tutelato gli interessi dell’Italia in questi anni siamo stati noi. E io sono per la forza, non per la violenza». Cosa vuol dire? «Che nei campi rom, invece della ruspe, manderei la polizia». E nei porti? «Si possono anche chiudere. Ma agli sos si risponde. I soccorsi in mare si fanno: c’è un codice internazionale da rispettare. Questo non vuol dire andare a prendere gli immigrati sulle coste libiche, come fanno le Ong». Un’altra tartina: «Usano il linguaggio da bar che vuole la gente. Ma trovo più grave che il ministro dell’Interno dica che non bisogna vaccinarsi. Di tutte le sue esternazioni, questa è quella che m’è piaciuta di meno».

Il volo, alla fine, parte con un’ora di ritardo. Tajani sistema la sua borsa rettangolare nera nella cappelliera. Salvini dice che Emmanuel Macron, presidente francese, è 15 volte peggio di Orbán e i respingimenti a Ventimiglia sono vergognosi: ha ragione o sono folate sovraniste? «Lamentele giuste. Ma i toni rischiano di farlo passare dalla parte del torto». Pure Macron non perde occasione per attaccare l’Italia: «Spara a palle incatenate perché vede dietro Salvini la sua arcinemica Marine Le Pen. Lo scontro è sulla visione dell’Ue: tecnocratica o populista. Macron è un pragmatico liberale. Ha ridato centralità alla Francia. Adesso è lui il nuovo». Sembra faccia solo gli interessi del suo Paese: «Non m’è piaciuta la politica francese su Fincantieri e su Ventimiglia: non sono state scelte europeiste».

L’aereo, dopo un’infinito rullaggio, decolla. Tajani guarda scorato l’orologio: «Non arriveremo mai». Francia e Germania hanno paura dell’Italia: «Devono ridimensionare il nostro populismo, per evitare che prenda piede anche da loro. Salvini spera nella caduta della Merkel». Per fare un asse con l’omologo tedesco, Horst Seehofer? «Gli interessi sono contrapposti. Seehofer vuole rimandare da noi i richiedenti asilo in transito. Cerca di spingerli a Sud. Così come il cancelliere austriaco Sebastian Kurz: anche lui non esiterà a rispedirci gli immigrati registrati in Italia. Se questi sono gli amici di Salvini, altro che il “prima gli italiani” leghista. Il nostro governo è isolato». Seehofer quindi sta solo usando il leader leghista? «Sono tanti quelli che vogliono destabilizzare l’Europa. I paesi di Visegrad. La Russia. Gli Usa. Tutti con obiettivi diversi. L’Unione debole fa comodo a molti. La crisi economica ci ha fiaccato. Il presidente americano Donald Trump, con i dazi, vuole indebolire l’industria automobilistica tedesca. E quello russo, Vladimir Putin, vuole infilarsi in mercato ricco, senza responsabilità politiche».      

Un piano ordito dai populisti dell’Unione, appoggiati da Trump e Putin, per fare cadere la Merkel.  «Nessuno ha le prove, ma l’idea di far saltare la regina e vedere cosa succede è condivisa da molti». L’Italia è una pedina di questo gioco? «Una pedina consapevole, ma non protagonista. Partecipare a questo patto tra sovranisti sarebbe deleterio per il nostro Paese: non ci sarebbe alcuna redistribuzione dei richiedenti asilo e tutto il peso dell’immigrazione rimarrebbe sulle nostre spalle».  

Il cielo sopra Roma è fosco. Pioggia incessante e raffiche di vento. L’aereo, dopo aver ballato un po’, atterra bruscamente. I passeggeri scattano in piedi per catapultarsi verso le cappelliere. Un elettore forzista s’avvicina deferente. Tajani incarna il mefistofelico potere europeo. «Il palazzo mi annoia. Ho sempre vinto le elezioni con le preferenze, convincendo gli elettori.  Mi diverto molto di più per strada». E l’anno prossimo? «Vorrei ripresentarmi. E ritentare la conquista del Parlamento». Assieme a Silvio Berlusconi, magari. «Il suo nome è attrattivo. Sarebbe una grande sfida anche per lui. Lo spingerò in ogni modo a candidarsi». Ci riuscirà? «Le battaglie gli piacciono...».

Una macchina scura lo riporta a casa. Dal finestrino gocciolante di pioggia, sbucano i palazzoni della periferia romana. L’ultima domanda suona vuota nel ronzio dell’abitacolo. Mister Europa rivede mentalmente la sua giornata più lunga. Si passa una mano sulla fronte: «Che casino...».  

(Questo articolo è stato pubblicato sul numero 29 di Panorama - in edicola il 5 luglio 2018 - con il titolo: "Se affonda l'Europa anche noi...")

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