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Antonino Cannavacciuolo, passioni ed evasioni di un Masterchef

Ci sono i ritmi da crepacuore della tv, dove i concorrenti si sfidano a costruire pietanze raffinate sotto il ricatto del cronometro oppure a sfamare con destrezza orde di clienti nervosetti e criticoni. E poi, agli antipodi, c’è «A tavola si sta insieme», il nuovo libro dello chef Antonino Cannavacciuolo: un elogio della lentezza in cucina. Una raccolta di menu divisi per stagioni e occasioni, a prova d’intolleranze e predilezioni alimentari, incluso il crudismo. E con un ingrediente in comune: «L’invito a mettersi all’opera, a darsi da fare per i propri invitati prima di sedersi con loro. Oggi tutto è accelerato, si mangia da soli troppo spesso perché manca il tempo, invece un pasto in compagnia è un momento magnifico».

Con chi ama condividerlo?

Con la mia famiglia. I bambini crescono, gli adulti invecchiano, ritrovi loro e vedi la tua vita trascorrere.

Per i suoi cari aggiunge volentieri un posto a tavola. Cosa fa con chi le è antipatico? Carica la famosa pacca?

Niente affatto, la pacca è un gesto amorevole. La do a chi entra nelle mie grazie. Chi mi ha fatto arrabbiare, se la sogna.

Se non fosse un master chef, sarebbe un...   

Un master pescatore. Nelle acque agitate di Capo Verde, dove nuotano barracuda da 30 chili, o in quelle calme di un lago, dove ho preso lucci da dieci. Giusto il tempo di una carezza però, poi li lascio andare. Pescare mi rilassa, non importa se non abbocca nulla per otto ore.  

Compagni d’attesa?

Le canne Italica, le trovo molto versatili.

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Com’è il suo rapporto con la moda? Non è che ha un armadio da incubo?  

Si è messo d’accordo con mia madre? Lo ammetto, ho una quantità enorme di camicie. Alcune sono di colori improbabili, le indosso giusto ad agosto per andare al mare. Mi è stato intimato di regalare ai poveri quelle che non uso. In casa c’è una guerra fredda in corso.

La colonna sonora per riportare la pace?

De André o De Gregori. Ma se devo scegliere una canzone, dico «Sara»: Pino Daniele l’ha dedicata alla figlia. È un capolavoro, mi emoziona, fa da sottofondo quando scrivo una ricetta.

L’ingrediente ricorrente?

Il limone. Un ritorno alla mia terra, a mille partite di calcio tra ragazzi in mezzo agli alberi. Per noi era come il pane. Che sia una buccia, una goccia o una grattata, il limone nei miei piatti non manca mai.

E tra i libri sul comodino?

Storie di chi è diventato qualcuno puntando su un’intuizione e il lavoro duro. Come la biografia del fondatore di McDonald’s: era un fallito, ha costruito un impero. Non giudico la cucina, ne ammiro il percorso. O «I ragazzi della via Pál»: avventure di frantumati, che alla fine ce la fanno.

Come si rilassa?

Pesca a parte, mi diverto guidando la mia Audi Q7. Ha un ottimo motore. Aspetto con ansia la Q8. Non sono un tipo da spa, il benessere ci deve circondare, viene dai dettagli. A Sorrento, con mia moglie Cinzia, abbiamo il «Laqua charme & boutique»: sei camere progettate secondo i principi del Feng shui. Un ambiente sano, i colori giusti, fanno bene all’anima.

È obbligatorio chiederle di consigliare qualche ristorante.

In Italia ne apprezzo troppi. Andiamo all’estero. In Francia, «L’Auberge de l’Ill»: tempio della tradizione d’Oltralpe. Il foie gras è indimenticabile. In Spagna, «Quique Dacosta», che sbalordisce il cliente rimanendo con i piedi per terra.

Mangiare bene alleggerisce la vita?

Non solo quella. Mio nonno, dopo un pasto sontuoso, diceva: «Mo’ posso pure morì». Sono felice, adesso posso anche morire. Come dargli torto? Arrivare incazzati nell’Aldilà sarebbe un gran peccato.

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