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Silvia D’Amico: «​Sono un’aliena che arriva da un altro pianeta»

Silvia D’Amico: «​Sono un’aliena che arriva da un altro pianeta»

E il volto più cercato per le serie italiane. La protagonista di A casa tutti bene si racconta: l’infanzia felice, i sogni di bambina, la forza che danno famiglia e amici. E anche di come si sta «nel frullatore di Gabriele Muccino».


Da piccola Silvia D’Amico era sicura di venire da un altro pianeta. E a guardarla con attenzione, non ci sentiamo di smentirla fino in fondo. Camaleontica, affilata, bella per quel suo sguardo che è sempre altrove. Capace di vestire perfettamente i panni di una tossica che vive nel serpentone di Corviale, credibile come un personaggio di un romanzo di William S. Burroughs. E quelli strazianti di Rosaria Schifani, moglie dell’agente della scorta di Giovanni Falcone ucciso nella strage di Capaci. E poi ha un nome che sembra una predestinazione («Lasciamo perdere, ho pensato spesso di cambiarlo»). Ora sarà la donna che in fondo tutte noi vorremmo essere: quella che si prende la rivincita. Da moglie tradita a traditrice. Forte (e quanto urla bene lei non urla nessuno), decisa, rigorosa, il perno di una famiglia assai disfunzionale. Gabriele Muccino l’ha scelta per interpretare Sara Ristuccia in A casa tutti bene – La serie. La sontuosa seconda stagione in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW ripartita il 5 maggio con otto nuovi episodi. E Muccino, che ormai è per il cinema il Jonathan Franzen della famiglia italiana, scegliendo lei ci ha visto molto lungo. «Eppure, interpretare Sara è la cosa più distante da me di quello che si possa immaginare. Ma il grande dono che riconosco a Gabriele, e in questo è quasi un medium, è che quando sceglie un attore, riesce a individuare un punto di contatto con il personaggio, spesso nascosto anche all’attore stesso. Una somiglianza, una debolezza, una passione che solo lui riesce a vedere».

E in cosa le somiglia una moglie borghese e fedifraga con un filo di trucco e un filo di tacco?

Mi assomiglia nella gestione della famiglia, nel voler tenere unito il branco. Propositiva e presente qualsiasi cosa accada. Anche io ho una grande famiglia unita, cui sono profondamente legata.

Perciò a casa sua tutti bene?

Mia madre ha trasmesso a me e a mio fratello valori solidi, radici profonde. Ci ha insegnato a rimanere uniti, a esserci uno per l’altro. Ho anche una famiglia allargata, quella che ho scelto, i miei amici. Organizzo cene, momenti insieme, sono la referente del gruppo. Questo mi accomuna a Sara: il cuore.

Avere una famiglia felice è un privilegio raro.

I miei genitori lavoravano in banca, ora sono in pensione. Siamo una famiglia normale, sana, dove ci si ama, non ci si mente e non si sta insieme per forza. La serie scava nell’infelicità, tira fuori contraddizioni e un dolore che ognuno di noi si porta dentro. La mia storia per fortuna è diversa.

In cosa si sente diversa da Sara?

Quella che sono è frutto di una conquista personale. Non ho ereditato nulla, mi sono costruita pezzetto per pezzetto, da sola, con tenacia, disciplina. Nel nostro ambiente è difficile, ma posso dire di esserci riuscita con le mie forze.

In quanto tempo?

Trent’anni. A sei recitavo a scuola. Fin da piccola sapevo che avrei fatto l’attrice.

Nata nella periferia romana e grazie alla periferia ha costruito i ruoli migliori, come Rachele la protagonista di Christian, altra serie di successo. Ma fuori dallo schermo com’era la vita?

Sono di Torrevecchia, ma ho vissuto al di fuori del cliché della periferia. Non sono cresciuta nel disagio. A casa mia tutti avevano studiato, super laureati, mio fratello è un ingegnere. Di quel quartiere ho assorbito ciò che vedevo e ne ho fatto tesoro per poi usarlo nel lavoro. Negli anni ho capito che mi ha aiutato a essere più sveglia, a sapermela cavare meglio.

Rachele risorge grazie a un miracolo. Crede ai miracoli?

Sì, ci credo, ho una mia spiritualità. Anche se ogni trasformazione, ogni successo me li sono guadagnati. È il risultato di scelte e fatica. E alla fine penso che siamo noi gli artefici delle nostre vite.

Chi è stato il suo maestro?

Sicuramente incontrare Carlo Cecchi è stato un evento miracoloso. Ha formato una generazione di attori. Grazie a lui ho conosciuto Luca Marinelli con cui ho recitato nell’ultimo film di Claudio Caligari, Non essere cattivo. Mi ha insegnato ad amare la poesia, la letteratura. Elsa Morante e Patrizia Cavalli. È duro, non fa sconti a nessuno. Ma uscire dall’Accademia e incontrare Cecchi ti insegna a stare al mondo, in quel mondo. A non aver paura dei cambiamenti, ad ascoltare. Che è una delle cose più importanti che un attore deve saper fare.

Quali altre qualità deve avere un attore?

Ho sempre davanti una frase di Gian Maria Volontè: «Io cerco di fare film che dicano qualcosa sui meccanismi di una società come la nostra, che rispondano a una certa ricerca di un brandello di verità». È diventato il mio mantra. Voglio raccontare il nostro tempo, quello che vedo, che vivo.

E come le sembra questo nostro tempo?

Veloce, troppo veloce. È sempre più difficile non farsi divorare dai ritmi frenetici. Basta guardare quello che succede con le serie. È un consumo continuo, immediato. Ora vanno di moda le storie di adolescenti, si fanno solo quelle. Una dietro l’altra. Non c’è più attenzione, né cura. Mentre io ci tengo a prendermi il mio tempo, ad avere cura di chi mi sta vicino.

Lavorare con Muccino che esperienza è stata?

Ti butta dentro con tutte le scarpe, anche contro la tua volontà. Stravolgente, intenso. Ti obbliga a gettare il cuore oltre l’ostacolo. Ti fa stare nudo, senza pelle, devi perdere completamente il controllo. E se non ci riesci, ti manda a casa.

Lei come ci è riuscita?

Entri in un turbine di sentimenti e di colpo non ne puoi più fare a meno. Quando abbiamo finito gli ho detto: «Gabrie’, se dovessi fare un’altra stagione vorrei esserci. Voglio stare nel tuo frullatore». È una sensazione che una volta provata è catartica.

Sul suo profilo Instagram c’è scritto «Io non sono qui». Non l’abbandona l’idea di appartenere a un’altra galassia?

Da piccola fantasticavo di venire da un altro pianeta, di essere una aliena. Osservavo il mondo con occhi diversi e con la mia ipersensibilità. Mi facevo domande sull’universo. Costruivo un mondo di fantasia, segreto. Questa è una cosa che molti attori fanno, restando bambini per sempre. Forse perché quando si smette di crescere, si inizia a morire.

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