Chi oggi grida «Palestina libera» non sa che, come ai tempi dell’ayatollah Ruhollah Khomeyni in Iran, la sta consegnando ai suoi boia.
Jean-François Revel, socialista convertitosi al liberalismo, da commentatore del settimanale L’Express e di Panorama si interrogò sul futuro dell’unica democrazia del Medio Oriente nei giorni caldi della guerra dello Yom Kippur, quando Israele dopo un iniziale sbigottimento reagì con la forza della disperazione all’attacco congiunto da Nord a Sud, per opera di egiziani e siriani. «Il naturale destino di Israele è la sua scomparsa» spiegò Revel. Un popolo con tre milioni di abitanti come può sopravvivere se si coalizzano 130 milioni di arabi? A distanza di mezzo secolo, siamo ancora lì a interrogarci sul futuro del Paese fondato con un voto all’Onu nel 1948. La guerra va avanti da ottant’anni, cioè dal giorno in cui Israele è ufficialmente nato. Ma se un tempo la domanda di Revel appariva logica, anche perché secondo i capi dell’Olp i palestinesi avrebbero vinto con la sola forza demografica (in fondo ripetevano solo la storica frase dell’ex presidente algerino Houari Boumédiène), oggi non lo è affatto.
È vero, per quanto gli israeliani abbiano fatto per incrementare la popolazione del Paese, organizzando il ritorno in massa degli ebrei, raddoppiando il numero di residenti, il confronto con gli arabi resta sempre perdente. I palestinesi della Striscia di Gaza sono due milioni e mezzo e altri due milioni e mezzo si aggiungono in Cisgiordania. Poi ci sono quelli della diaspora. Dunque, già così palestinesi e israeliani quasi si equivalgono. Ma poi ci sono tutti gli arabi dei Paesi circostanti, molti dei quali accerchiano Israele. Dunque, se il confronto deve essere fatto semplicemente sulla forza dei numeri, è evidente che lo Stato ebraico è destinato a scomparire, come diceva Revel. Ma il tema non è numerico. O per lo meno non è soltanto numerico. Il problema è che cosa accadrebbe in quell’area se Israele scomparisse, perché è questo il risultato finale di coloro che dicono di battersi per la Palestina.
Per capirlo è sufficiente leggersi, non solo le dichiarazioni di molti dei capi di Hamas, ma lo statuto che 35 anni fa diede vita al Movimento islamico di resistenza. L’obiettivo dell’organizzazione è la cancellazione di Israele. Prova ne sia che lo sceicco Ahmed Yassin, colui che partendo dalla militanza nella Fratellanza musulmana fondò Hamas, riteneva i colloqui di pace una presa in giro. Per lui e i suoi seguaci, la terra è sacra e come tale tutta deve essere palestinese. Perciò è inutile credere che sia possibile la soluzione citata da molti osservatori, ovvero due popoli e due Stati, perché per Hamas di popolo e di Stato ce ne deve essere solo uno: il suo. Per il Movimento islamico di resistenza che ha assaltato e trucidato oltre un migliaio di israeliani inermi che dormivano nelle loro case o ballavano a un rave nel deserto, si deve tornare alla situazione del 1946, ovvero a prima che nascesse Israele.
Hamas non accetta e non accetterà mai una soluzione che veda restituita la parte di territori occupata dopo le guerre arabo-israeliane combattute dal 1948 a oggi. Del resto, proprio la situazione di Gaza ne è la dimostrazione. Nel 2005, Ariel Sharon decise il ritiro unilaterale dalla Striscia e contro il parere della destra israeliana evacuò tutte le colonie che si erano insediate in territorio palestinese. I tg diffusero le immagini di intere famiglie portate via con la forza e costrette a lasciare le case che avevano costruito e i terreni che avevano dissodato. Invece di pacificare gli animi, quella scelta li infiammò. L’anno dopo Hamas vinse le elezioni e con le buone, ma sarebbe più giusto dire con le cattive, impose la sua dittatura su Gaza. Già nel 2009 la situazione era tale che, a seguito di continui lanci di missili contro Israele, il governo guidato da Ehud Barak fu costretto a rientrare nella Striscia per dare la caccia ai terroristi. I lettori di Panorama ricorderanno un’inchiesta di Fausto Biloslavo in cui si ricostruiva in che modo già allora le famiglie palestinesi fossero usate come scudi umani da Hamas, che nascondeva le armi nelle scuole e lanciava razzi dai tetti delle abitazioni con sprezzo delle vite umane, messe a rischio dalla reazione israeliana.
Mezzo secolo fa (e migliaia di morti prima), Revel chiedeva a tutti di uscire dall’ambiguità, smettendola di giocare con le parole e le persone. Soprattutto, li invitava a farla finita con l’idea che l’unico problema fossero i territori occupati, ricordando che per anni quel fazzoletto di terra era stato controllato da Gamal Abd el-Nasser, che certo palestinese non era. Per Revel si era liberissimi di pensare che Israele non avesse diritto di esistere, oppure che lo avesse, ma poi, una volta fatta una scelta, ognuno avrebbe dovuto assumersi le proprie responsabilità. E, aggiungo io, farsi carico del peso di contribuire a far sparire l’unica democrazia della zona per sostituirla con uno Stato islamico. Chi oggi grida «Palestina libera» non sa che, come ai tempi dell’ayatollah Ruhollah Khomeyni in Iran, la sta consegnando ai suoi boia.