Studiando come invecchiano prima le cellule e i tessuti di chi passa un periodo in orbita, si può capire, e contrastare, il declino psicofisico di noi tutti sulla Terra. Lo afferma nel suo nuovo saggio Filippo Ongaro, medico che ha studiato a lungo gli astronauti.
Una nuova vecchiaia è possibile. Basta pensarci quando è ancora lontana. E se siete convinti sia tutto già scritto nel Dna, sbagliate: a giocare la partita, nella logorante battaglia contro l’invecchiamento, ci sono anche i sentimenti, le relazioni, l’atteggiamento verso la vita, le nostre reazioni a ciò che accade, l’interazione geni-ambiente (e quella mente-corpo).
È il cuore della medicina anti-aging, disciplina nella quale è esperto Filippo Ongaro, primo italiano a essersi certificato in questa branca della pratica clinica e per molti anni medico d’equipaggio degli astronauti dell’Esa, Agenzia spaziale europea. Proprio grazie a questa esperienza per rallentare l’invecchiamento accelerato di chi vive a lungo nello spazio, Ongaro ha potuto mettere a punto nuovi protocolli di allenamento psicofisico e alimentazione descritti nel suo ultimo libro, Missione longevità (edito da Sperling & Kupfer), per un «terzo tempo» sano e appagante.
In che modo le ricerche sugli astronauti possono aiutare noi «terrestri» a invecchiare meglio?
L’astronauta è un caso-studio interessante perché, durante la permanenza nello spazio in assenza di gravità, è esposto a un deterioramento accelerato, soprattutto dei distretti ossei e muscolari: i processi che osserviamo in questi individui sono gli stessi che subiamo noi nel corso della vita, ma essendo così concentrati nel tempo riusciamo a studiarli in tempi molto brevi e a capire come intervenire immediatamente, osservando anche gli effetti positivi delle nostre contro-misure. Per questo il volo spaziale è considerato un modello prezioso per quanto riguarda l’invecchiamento e la sua prevenzione.
La nostra vita quotidiana e quella degli astronauti tra le stelle si assomigliano più di quanto pensiamo?
È così. Loro hanno bisogno di un ottimo livello di salute perché fanno un lavoro molto impegnativo, ma non sono certo atleti professionisti e non hanno vent’anni. Inoltre, proprio come noi, hanno poco tempo per tenersi in forma. Studiare la reazione dei loro apparati muscolari e ossei allo stress dell’invecchiamento e a protocolli di allenamento specifici è fondamentale per modulare anche le abitudini delle persone comuni.
Il loro invecchiamento accelerato è reversibile?
Assolutamente sì, e da questa osservazione derivano informazioni importanti per tutti. Recupera meglio il muscolo rispetto all’osso, ma anche i distretti ossei ci riescono, soprattutto ora che gli astronauti hanno un programma di «contromosse» a bordo della Stazione spaziale internazionale. Seguono in media due ore di allenamento al giorno, e tornano a terra in condizioni piuttosto buone: la prova operativa che l’elemento principale anti-invecchiamento è l’allenamento fisico. Possiamo dire che l’ipotesi che si invecchi e quindi si perda muscolatura è un po’ da leggere al contrario: si perdono muscoli e quindi si accelera il declino.
Dove sbagliamo, noi e i nostri medici, nell’approccio all’invecchiamento?
Non abbiamo un ideale cui tendere. La nostra cultura ci ha convinti del fatto che l’invecchiamento sia di per sé una cosa negativa, che porterà a un calo di funzionalità e a un peggioramento della qualità della vita, e con questa convinzione non abbiamo un atteggiamento proattivo. Siamo passivi, facciamo corna e scongiuri ma non ci attiviamo mai per creare quel percorso che può fare la differenza. È una questione psicologica, emotiva e culturale, più che scientifica. Abbiamo un impatto molto forte sulla qualità del nostro invecchiamento, ma bisogna cominciare presto, già dai 40 anni.
Nel libro cita spesso la modulazione epigenetica come chiave di volta per una longevità sana. Di cosa si tratta, a cosa serve?
Ognuno di noi nasce con un certo Dna, che favorisce una determinata propensione ad alcune malattie piuttosto che ad altre. Questa predisposizione pesa – secondo gli scienziati – solo per un 20-25 per cento sul nostro destino. Il resto dipende da come gli stimoli ambientali regolano l’attività dei geni, che possono essere «accesi» o «spenti» in maniera diversa, dando luogo a un numero infinito di combinazioni.
E questa «attivazione» possiamo determinarla noi?
Diciamo che la regolazione sull’espressione genica dipende dagli stimoli che vengono dalle nostre scelte: da quanta attività fisica facciamo, da cosa mangiamo, dall’aria che respiriamo, dai livelli di stress, dalle emozioni. Tutto questo viene oggi chiamato esposoma, cioè l’insieme di stimoli che regolano l’espressione dei nostri geni, che possono amplificare una nostra predisposizione oppure annullarla o ridurla in termini di probabilità.
Lei scrive anche dell’esposizione estrema al caldo e al freddo come tecnica di contrasto all’invecchiamento…
Perché entrambi hanno una funzione simile a quella che proviene dall’allenamento fisico, e per certi versi dal cibo. Sono tutti piccoli fattori stressanti che generano una risposta iperprotettiva e riparatrice a livello delle cellule e dei tessuti. Quindi, se utilizzati con il dosaggio corretto è un po’ come se imponessimo al nostro corpo uno stimolo pericoloso, in modo che, reagendo, si rafforzi. Noi siamo fatti per imparare ad adattarci a variazioni climatiche importanti, con l’uso e abuso di riscaldamento e aria condizionata l’abbiamo un po’ dimenticato e il nostro «range» di tolleranza della variazione di temperatura si è ridotto di molto. Questo è deleterio.
Via libera a saune, hammam, docce gelate e terme?
Esatto. Torniamo a prendere esempio dagli antichi e pensiamo alla civiltà romana, con frigidarium e calidarium. Non avevano certo le conoscenze scientifiche per comprendere cosa succedeva a livello cellulare, ma avevano intuito che queste esposizioni programmate rafforzavano l’organismo, e in particolare il sistema immunitario.
Poi ci sono i legami personali e sociali: uno studio americano sostiene che quelli che abbiamo a 50 anni faranno la differenza quando ne avremo 80. È così?
È quanto emerso da questo grande trial condotto dall’Università di Harvard a partire da metà anni Trenta e tramandato da diverse generazioni di ricercatori. La qualità, la positività delle relazioni strette che una persona ha attorno ai 50 anni è predittiva del livello di salute e della qualità della vita che avrà a 80. Sul piano strettamente psicologico, è intuitivo: essendo noi animali sociali, avere relazioni che ci danno supporto può essere un vantaggio. La peculiarità più interessante emersa dalla ricerca è che questo influisce anche sulle varianti biomediche, quindi sulla salute dell’organismo. Tanto che i ricercatori che adesso stanno gestendo questo studio suggeriscono addirittura che la sensazione di isolamento e solitudine, la privazione di relazioni importanti, facciano male quanto l’abuso di alcool.
E i nuovi studi nel campo della longevità, dove ci stanno portando?
Ci sono molti filoni di ricerca, aziende e startup della Silicon Valley studiano molecole o sostanze naturali che hanno la capacità di distruggere parte dei materiali danneggiati nelle cellule. Se favoriscono lo smaltimento delle scorie accumulate con il passare degli anni, questi farmaci vengono definiti senolitici, se invece bloccano proprio il processo di invecchiamento impedendo la senescenza delle cellule, si chiamano «senoblocker». Ci sono dati di rilievo e probabilmente nei prossimi anni emergeranno risultati importanti, ma andranno sempre associati a una correzione degli stili di vita. Però non si troverà mai la pillola magica. Non esistono scorciatoie, perché l’invecchiamento è uno dei fenomeni più complessi della vita.
