La Francia e altri Paesi Ue vogliono inserire l’energia nucleare tra le fonti non inquinanti in vista dei finanziamenti del Recovery Plan. L’Italia da parte sua non torna indietro. Eppure nel mondo si investe in centrali di nuova generazione, più piccole e più efficienti.
È tutta colpa sua. È stato Roberto Cingolani a risvegliare la paura dell’energia nucleare che alberga nei cuori degli italiani: il ministro della Transizione ecologica ha infatti ricordato che una decina di Stati europei guidati dalla Francia ha chiesto a Bruxelles di inserire le mini centrali atomiche tra le fonti non inquinanti. Ed è bastato al ministro sfiorare soltanto il tabù del nucleare per essere investito dalle critiche.
Così, dopo aver per un attimo socchiuso la porta che rivela ciò che succede fuori dall’Italia, il capitolo verrà archiviato un’altra volta. E non potrebbe essere altrimenti: gli italiani hanno detto no alle centrali nucleari con i referendum del 1987 e 2011 provocando la chiusura anticipata di quelle in esercizio (a differenza di altri Paesi più furbi di noi, come Svezia o Svizzera, che pur avendo votato per non autorizzare nuovi impianti, hanno tenuto in vita quelli già costruiti).
Però, appena si lasciano i confini italiani, si scopre che l’energia nucleare, pur con i suoi problemi di sicurezza e di rifiuti radioattivi, non solo gode di buona salute, ma sta vivendo una fase di rilancio grazie alla lotta che ormai tutti i Paesi hanno deciso di combattere contro il riscaldamento globale e le emissioni di anidride carbonica (CO2).
Come spiega a Panorama Laura Cozzi, chief energy modeller dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), attualmente «gli impianti nucleari attivi sono 443, presenti in 32 Paesi, più della metà concentrati in quattro aree geografiche: Usa (93), Francia (56), Cina (50) e Russia (38). A oggi il nucleare rappresenta il 10 per cento della produzione mondiale di elettricità con circa 2.700 tetrawattora».
Nel 2020 l’atomo era al quarto posto tra le principali fonti di elettricità dopo carbone, gas naturale e idroelettrico. Nell’Unione europea il 26,4 per cento dell’elettricità arriva dalle centrali nucleari di 13 Paesi, dal Belgio alla Slovacchia, dalla Francia alla Spagna. L’Italia è circondata da impianti atomici: a 150 chilometri da Bardonecchia c’è quello francese di Bugey; a 186 chilometri da Trieste si trova la centrale nucleare di Krško in Slovenia. E in Svizzera, che nel 2018 ha vietato l’autorizzazione a nuove centrali, sono ancora operativi quattro impianti atomici: il più vicino è a Niedergösgen, 300 chilometri da Milano. «In questo momento» aggiunge Cozzi «sono 50 gli impianti in costruzione in 19 Paesi: più della metà si trovano in Asia, economia in forte espansione e con domanda di elettricità in crescita».
In particolare, la Cina ha quasi raddoppiato i progetti in cantiere nell’ambito di un piano già di per sé molto ambizioso. Le nuove centrali nucleari in fase di realizzazione sono di terza generazione e presentano alcune differenze sostanziali rispetto a quelle di seconda generazione, come riassume la funzionaria dell’Iea: «Un design più standardizzato per ridurre i costi di capitale e i tempi di costruzione; una vita media stimata di 60 anni contro i 40 di quelli della passata generazione; continua e progressiva riduzione del già basso livello di rischio di fusione del nocciolo; un migliore sfruttamento del combustibile e quindi una riduzione del volume dei rifiuti ad alta attività; il riutilizzo di parte del combustibile già usato per allungare la vita del combustibile stesso; una potenza di circa 1.000-1.600 megawatt rispetto ai 600-1.000 degli impianti di seconda generazione».
Se fino a qualche mese fa le previsioni indicavano per l’energia nucleare una crescita quasi piatta, la guerra contro il riscaldamento globale sta cambiando le regole del gioco. A fornire un quadro di quello che l’umanità dovrà fare per portare le emissioni di anidride carbonica legate all’energia a zero entro il 2050 e a dare al mondo una possibilità di limitare l’aumento della temperatura globale a 1,5 gradi, è stata proprio Laura Cozzi e il suo team dello Iea nel rapporto Net Zero by 2050 presentato a metà maggio.
Questo documento indica tutte le tappe da percorrere nei prossimi 30 anni per salvare il pianeta: le energie rinnovabili, che oggi producono il 29 per cento dell’elettricità mondiale, dovranno salire all’88 per cento, mentre le fonti fossili, che ora forniscono il 61 per cento della produzione elettrica, dovranno azzerarsi. In questo scenario l’energia nucleare dovrebbe raddoppiare la produzione a 5.497 terawattora mantenendo il quarto posto come fonte di elettricità dopo eolico, solare e idroelettrico, con un peso dell’8 per cento sul totale. «Per fermare il riscaldamento globale dobbiamo agire adesso e l’energia atomica deve essere parte della soluzione» ribadisce Jacopo Buongiorno, professore di Nuclear science and engineering al Massachusetts institute of technology (Mit) di Boston e direttore del Canes (Center for advanced nuclear energy systems). I reattori del futuro saranno più piccoli e più economici.
«Io e il mio gruppo di ricerca» annuncia Buongiorno «stiamo lavorando su reattori compatti da meno di 100 megawatt che hanno un grande potenziale di commercializzazione: costano meno, non richiedono grandi cantieri e i tempi di realizzazione sono molto più veloci. Inoltre sono modulari, se hai bisogno di maggiore potenza puoi mettere insieme più reattori e hai risolto il problema. Tutto questo dovrebbe creare una maggiore domanda da parte di clienti che non possono spendere 10 miliardi di euro per una grande centrale nucleare o che magari devono sostituire vecchi impianti a carbone: di solito questi hanno una taglia da 100-200 megawatt e gli small reactor sono ideali per prendere il loro posto, sfruttando le strutture già presenti sul sito, come l’impianto di raffreddamento, la turbina, le linee per la trasmissione elettrica. Metterci invece una grande centrale da un gigawatt non sarebbe possibile».
Centrali di questa taglia più piccola sono già presenti in alcuni Paesi e la Cina ha sviluppato una nuova tecnologia molto promettente. Mentre il primo small reactor americano sarà allacciato alla rete elettrica nel 2029 e prenderà il posto di una centrale a carbone. Anche l’Italia gioca un ruolo in questa partita. L’Ansaldo Nucleare, il ramo atomico di Ansaldo Energia, con un fatturato di 70 milioni di euro e due sedi in Italia e in Inghilterra, è impegnata su vari fronti: in Italia si occupa prevalentemente del processo di dismissione delle centrali spente dopo i due referendum, mentre all’estero la società lavora su impianti esistenti per aggiornarli e aumentarne il livello di sicurezza in base ai nuovi protocolli stabiliti dopo l’incidente di Fukushima. Inoltre, in Francia è coinvolta nel progetto Iter, il reattore sperimentale che nel 2025 dovrà verificare se è possibile produrre elettricità con la fusione nucleare. Ma soprattutto Ansaldo Nucleare collabora con Westinghouse per lo sviluppo di uno «Small modular reactor» per il governo inglese, e con l’Enea per un progetto simile denominato Alfred e finanziato dalla Comunità europea.
«Gli Small modular reactor» spiega Luca Manuelli, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, «sono centrali nucleari più piccole, da 200-300 megawatt, realizzate in serie attraverso processi produttivi standardizzati e di conseguenza più economici. Sul fronte della sicurezza sono progettate per reagire automaticamente a eventi imprevisti, sono sistemi chiusi che non richiedono l’intervento umano. L’obiettivo è metterle a disposizione del mercato nel 2030. Avere impianti a costi più bassi potrebbe attrarre finanziamenti da altri settori che finora si sono tenuti alla larga dall’energia nucleare date le sue complessità».
Un nucleare in formato ancora più «small», da appena una decina di megawatt, potrebbe essere usato, secondo Buongiorno, anche nelle industrie che hanno bisogno di calore e oggi bruciano gas: e sono tantissime, dall’alimentare alle cartiere. Sempre con l’obiettivo di ridurre le emissioni di anidride carbonica, reattori più piccoli, grandi come un container, potranno essere usati per far funzionare navi o piattaforme offshore. Sarebbe una rivoluzione: alcuni la paragonano già a quella del personal computer che soppiantò i grandi mainframe. E infatti Bill Gates è entrato in questo business con una società che si chiama Terra power.
