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Le «vacche sacre» dell’ndrangheta, chi le tocca muore

Le «vacche sacre» dell’ndrangheta, chi le tocca muore

Nelle campagne calabresi mandrie di mucche e greggi di pecore pascolano libere e travolgono tutto quel che incontrano, mettendo a repentaglio la sicurezza di chi ci si imbatte. Appartengono a un gruppo di criminali da poco arrestati, che le ha usate come strumento di ricatto. Ma nessuno le cattura per paura di rappresaglie.


«Ma se giovenca molestaste, od agna, sterminio a te predico, e al legno, e a’ tuoi. E pognam, che tu salvo ancor ne andassi, riederai tardi, e a gran fatica, e solo»… Già nel dodicesimo canto dell’Odissea, la maga Circe ammonisce Ulisse di non toccare le «paterne vacche dalla fronte lunata» e i «monton lucenti» che pascolano nelle praterie della Sicilia omerica perché cari a Zeus. I marinai dell’eroe di Itaca non seguirono però il saggio consiglio, e fecero bistecche degli animali sacri scatenando l’ira del dio, che affondò le navi greche e li disperse in mare.

Uscendo dal mito ed entrando in una realtà che fonde paura, sangue e morte c’è la storia di ben altre «vacche sacre», quelle di proprietà dei boss della ‘ndrangheta che pascolano allo stato brado lungo contrade e campi coltivati dell’entroterra calabrese e dell’Aspromonte. «È un sistema per affermare il predominio territoriale della criminalità organizzata» spiega a Panorama un investigatore dei carabinieri che da anni è impegnato nella ricerca e nella cattura del bestiame dei mafiosi. «Nessuno può allontanarle né catturarle se non vuole incorrere in una esemplare punizione da parte delle cosche».

Il fenomeno da qualche tempo sembrava in diminuzione, ma nelle ultime settimane si sono materializzate, in provincia di Vibo Valentia, mandrie selvagge di cui nessuno sospettava l’esistenza. Sono parecchie decine tra mucche e tori, oltre a 300 pecore e agnelli, appartenenti a un gruppo di mafiosi arrestati, il 19 dicembre scorso, nell’ambito della maxi-inchiesta «Rinascita-Scott» della Procura di Catanzaro, condotta da Nicola Gratteri. I padroni sono chiusi in gabbia mentre gli animali scorrazzano in libertà, calpestando e distruggendo tutto quello che incrociano.

La preoccupazione è che gli animali hanno lasciato le campagne del Vibonese sconfinando nel piccolo paesino di Zungri, appena 1.900 abitanti. Gli avvistamenti si sono moltiplicati negli ultimi giorni coi giganteschi animali che passeggiano tra la gente, apparentemente docili. La Prefettura del capoluogo ha deciso di attivare una task-force con carabinieri forestali, Asl e Protezione civile per bloccare la mandria e catturare gli animali. Operazione tutt’altro che facile perché le «vacche sacre» si spostano velocemente seguendo l’istinto e la fame.

Un tempo, fino al 2010, quelle poche bestie che i cacciatori dello Stato riuscivano a rintracciare, tra i boschi della Locride e le terre brulle della provincia reggina, venivano abbattute a colpi di fucile. Un infelice spettacolo che ricordava le imprese di Buffalo Bill nell’Ovest americano. Oggi per fortuna non si usano le armi, e le «vacche sacre» vengono fermate coi sedativi o col lazo. «Sono un pericolo per l’incolumità pubblica» afferma l’investigatore, «perché invadono le strade, bloccano la circolazione e provocano danni a cose e persone. Abbiamo visto capi di bestiame persino nei cimiteri». Nella memoria dei calabresi è ancora impressa la scena di un’auto, una Peugeot 208, quasi completamente distrutta dal lato guida e, all’interno, una donna coperta di sangue. La vettura era stata caricata da un enorme toro, dal peso di svariati quintali, mentre la signora stava per partire.

Mucche e tori sono diventate armi non convenzionali delle cosche mafiose. Fanno il lavoro sporco che i picciotti non vorrebbero o saprebbero fare. Opportunamente indirizzati, sfondano i recinti e devastano coltivazioni e serre. I contadini e i mezzadri sanno bene che non possono difendersi, e le stesse forze dell’ordine hanno le mani legate. Chi potrebbe accusare una vacca di concorso esterno in associazione mafiosa?

«Spesso i proprietari preferiscono svendere gli appezzamenti piuttosto che combattere una guerra persa in partenza» è il commento di un imprenditore locale che da qualche anno si è trasferito al Nord. Ad acquistare le terre, secondo uno schema criminale su cui si stanno concentrando le attenzioni degli investigatori, sono le famiglie vicine alle organizzazioni mafiose a cui appartengono le «vacche sacre». Terre che poi diventano edificabili grazie a manovre speculative condotte da amministrazioni comunali conniventi.

Quelli che hanno provato a ribellarsi sono stati ammazzati nell’indifferenza generale. Vittima della protervia criminale e dell’omertà. Come Fortunato La Rosa, oculista in pensione di Roverello di Gerace, uno dei borghi più spettacolari d’Italia. I magistrati reggini della Direzione distrettuale antimafia non sono riusciti a condannare i killer perché l’indagine su mandanti ed esecutori è naufragata, ma sono convinti – come hanno scritto nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere a carico di due sospettati – che il medico sia stato ucciso «per non aver tollerato la sistematica invasione dei propri terreni da parte di bestiame di proprietà» di una famiglia di ‘ndrangheta, interessata a una «attività di allevamento e commercializzazione di bovini (…) condotta anche attraverso atti di violenza o minaccia e con la pretesa del pascolo abusivo su terreni altrui, da tollerarsi in virtù del potere di intimidazione derivante dall’appartenenza alla ‘ndrangheta».

Di lui ha parlato anche il procuratore Gratteri definendolo un uomo «perbene (…) barbaramente ucciso soltanto perché ha voluto difendere il proprio sacrosanto diritto a coltivare il podere di sua proprietà continuamente invaso dalle “vacche sacre”».

Vittima è stata La Rosa come vittima è Bruno Bonfà, imprenditore della Locride, il feudo mafioso del superboss Giuseppe Morabito (soprannominato «’u tiradrittu», ovvero buon tiratore). Bonfà è costretto a vivere sotto scorta per aver ingaggiato una battaglia con i padrini della ‘ndrina locale, che lo hanno quasi ridotto sul lastrico con gli attentati alle sue coltivazioni di bergamotto. Ma anche in questo caso non è stato utilizzato tritolo o dinamite: invece, ruminavano e muggivano.

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