Per 538 giorni mille uomini hanno lavorato senza sosta, anche in piena pandemia, per restituire a Genova e all’Italia il nuovo cavalcavia sul Polcevera. Merito di una regia tutta italiana, quella del Rina, il Registro italiano navale, guidato dall’a.d. Roberto Carpaneto, che a Panorama racconta la storia di una sfida impensabile.
Dal 9 febbraio 2019 mille uomini hanno lavorato senza interruzione, 24 ore su 24, compresi sabati e domeniche. Su 538 giorni, sono rimasti a casa soltanto il 25 dicembre. Per il resto degli ultimi 17 mesi, nulla è riuscito a fermarli, né a rallentarli: neanche la pandemia di Covid-19, che pure ha bloccato il mondo. Oggi, dopo quasi 13 mila ore d’impegno, possono finalmente dire di avercela fatta: i collaudi finali sono andati bene, e lunedì 3 agosto il presidente della Repubblica taglierà il fatidico nastro tricolore.
Molti di quei mille uomini forse non l’hanno ancora capito, ma hanno fatto un miracolo, il miracolo del ponte. In 538 giorni hanno costruito il nuovo cavalcavia sul Polcevera, al posto di quello crollato il 14 agosto 2018 con i suoi 43 morti. Mai nella storia italiana un’opera di queste dimensioni e di tanta complessità era stata realizzata in così poco tempo. Il merito va a una squadra italiana, che ha funzionato come un orologio svizzero: dagli ingegneri che hanno dato concretezza all’elegante progetto di Renzo Piano, agli operai dei colossi Fincantieri, Salini-Impregilo e Italferr, che l’hanno realizzato.
Certo, il miracolo ha avuto caratteristiche particolari: nell’ottobre 2018 il sindaco di Genova, Marco Bucci, è stato nominato commissario dal governo e dotato di poteri straordinari, e questo ha risolto molte grane burocratico-amministrative nella ricostruzione. Bisognava correre, del resto. E non solo per una questione d’immagine, ma anche perché Genova senza quel passaggio cruciale perde almeno 2 milioni di euro al giorno. In questi 17 mesi, però, attorno al cantiere s’è davvero accesa un’aura miracolistica. Qualcosa che ha permesso a un impegno, quasi folle, di superare problemi e ostacoli che avrebbero bloccato qualsiasi opera al mondo. Tanto che a fermarlo non è riuscita neanche il coronavirus. Se tutto questo è potuto accadere, se un lavoro ciclopico è riuscito senza intoppi, si può dire oggi che il merito è dovuto anche e soprattutto a una regia impeccabile, rimasta dietro le quinte.
Come il resto della squadra, tra l’altro, anche questa regia ha cuore e testa italiani. Anzi: genovesi, perché il sindaco Bucci l’ha affidata al Rina, il Registro italiano navale, che dal 1861 ha classificato migliaia di navi e dal 1999 s’è trasformato in società che fa progettazione di altissimo livello.
Sul ponte di Genova, assieme al commissario straordinario, il Rina è stato l’unico soggetto incaricato di seguire l’opera dal primo all’ultimo giorno. Dal gennaio 2019, con il primo avvio dei cantieri, è stato il Rina a coordinare e dirigere tutte le operazioni: l’abbattimento dei resti del ponte Morandi, con la contemporanea edificazione del nuovo manufatto, ma anche la messa in sicurezza di chi ci lavorava e il controllo finale di qualità.
Un ponte che cade offende l’intera categoria degli ingegneri. Lo sa bene Roberto Carpaneto, che non solo è ingegnere, ma è anche genovese, e del Rina è l’a.d.: «Abbiamo voluto far vedere che noi italiani facciamo bene le cose», dice a Panorama. «È stato il sindaco-commissario Bucci a sceglierci, per la sua esperienza di manager internazionale. Sa che abbiamo un ruolo importante, operiamo a metà strada tra il committente e le ditte costruttrici. Coordiniamo tutto, dal controllo dei progetti alla gestione dei cantieri, alla pianificazione delle giornate di lavoro».
Il Rina ha messo in campo un team di tecnici che in certi momenti è arrivato fino a 90 persone. Hanno dovuto prevedere migliaia di possibili problemi e scenari, ogni volta individuando uno spettro di possibili incognite e di soluzioni. «Avevamo anticipato l’alluvione di Genova del novembre 2019», sospira Carpaneto, «ma di certo non avevamo immaginato il coronavirus». Tra i manovali appesi al ponte, com’è ovvio, c’erano anche dei bergamaschi. Sono stati loro a dare l’allarme Covid-19, già a metà febbraio, quando il resto d’Italia non aveva ancora capito che cosa stava per arrivarle addosso. «Abbiamo subito accresciuto tutti i nostri piani di sicurezza», racconta Carpaneto, «e per prima cosa abbiamo ridotto i numeri degli operai nelle squadre. A metà febbraio già cercavamo per il mondo strumenti di protezione, mascherine certificate, gel disinfettanti e strumenti per sanificare…».
Insomma, un buon mese prima che nel lessico nazionale entrasse l’espressione «distanziamento sociale», e prima che il governo varasse controlli e lockdown, a Genova il Rina metteva in opera protocolli più che minuziosi: regolando i turni di mensa in modo da evitare contatti, per esempio, oppure spostando all’aperto le macchinette per il caffè.
«Ci siamo addirittura inventati un sistema informatico di tracciamento personale», ricorda Carpaneto: «Di ogni nostro operaio, giorno dopo giorno, sapevamo con chi avesse lavorato». È stato così che, quando tra marzo e aprile il primo manovale s’è ammalato, in meno di due ore il Rina sapeva chi tra i suoi compagni doveva essere considerato a rischio. «Erano 23, immediatamente posti in quarantena. Per fortuna nessuno di loro era stato contagiato, e anche il malato poi è guarito senza problemi».
Tutto il lavoro è stato basato su un’organizzazione a dir poco millimetrica. Per 17 mesi, la programmazione di ogni intervento ha avuto cadenza oraria. Ma la mattina del 26 giugno 2019, quando con la dinamite sono state demolite le due «pile» 10 e 11, cioè quel che restava del ponte Morandi, ogni mossa è stata calibrata addirittura al minuto: dalle 5,30 di mattina al momento dell’esplosione, alle 9,38. «E per evitare che la polvere del crollo coprisse la città», sorride Carpaneto, «abbiamo inventato la pioggia». Cioè il sistema delle vasche d’acqua che, esplodendo assieme alle due torri, hanno sollevato un geniale muro liquido di 50 metri, impedendo il passaggio al minimo pulviscolo.
Si guarda indietro, Carpaneto, e pensa ai mille momenti difficili che ha vissuto in questi 17 mesi. Come quando è stata fatta calare una parte di ponte da qualche centinaio di tonnellate, e ha dovuto passare per forza a 4 centimetri dal cornicione dell’Ansaldo, la cui fabbrica si trovava proprio lì sotto. Il momento più emozionante, però, è stato un altro: «Nella notte tra il 18 e il 19 febbraio 2019», dice l’ingegnere, e abbassa la voce, «abbiamo tagliato il primo pezzo del ponte, un blocco da 650 tonnellate. Ma quando all’una di notte abbiamo cominciato a farlo scendere, il ponte s’è animato. Ha lanciato un urlo, lungo e strano. Un lamento terribile, impensabile. Inimmaginabile. È stato un suono la cui eco è durata a lungo. Ancora oggi, a pensarci, vene da rabbrividire». A suo modo, anche quello è stato uno strano miracolo.