Per un reato in genere ritenuto grave, i giudici di Bergamo hanno imposto il pagamento di una somma che ha consentito all’imputato di patteggiare e quindi di uscire di prigione. Un precedente che potrebbe «americanizzare» i processi.
Qual è il prezzo della libertà? In tempi di coronavirus e di super green pass, la domanda potrebbe accendere gli animi e le speculazioni filosofiche ma, per il signor Monire Tantane, 43 anni, francese, la risposta è facile e immediata. Diecimila euro. Tanto quanto ha versato, in beneficenza, al reparto Covid dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo per uscire di prigione e ottenere il patteggiamento a due anni (con pena sospesa) per droga.
Il che significa che l’imputato non tornerà più in galera per questa storia, pur avendo ceduto, nell’ottobre 2015, ben 34 chilogrammii di hashish a un gruppo di maghrebini di Zingonia, un comune dell’hinterland orobico. Personaggi spregiudicati, si legge nelle informative di polizia giudiziaria, legati a esponenti della ’ndrangheta calabrese che gestisce lo smercio di «fumo» e cocaina in Lombardia. Tantane era stato arrestato l’estate scorsa in un albergo di Lucca mentre era in compagnia della moglie, un ufficiale dell’aeronautica d’Oltralpe. E per lui e gli altri complici, tutti arabi naturalizzati francesi, il gip firmatario dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere era stato chiarissimo: «Non sussiste la condizione […] della sospensione condizionale della pena [ma] sarà irrogata una pena superiore ai tre anni di reclusione attesa la gravità dei fatti e la prognosi negativa».
Che cosa ha cambiato allora le carte in tavola? La donazione, appunto. Che la Procura, guidata da Antonio Chiappani, e gip hanno qualificato giuridicamente come risarcimento al territorio per i danni provocati dallo spaccio di sostanze stupefacenti, ritenendolo un reato contro la salute pubblica al pari della commercializzazione di bevande e alimenti adulterati. Una decisione che, al di là del singolo episodio di cronaca, può diventare un precedente per un ripensamento beccariano «dei delitti e delle pene». Anche e soprattutto considerando che a Firenze, una condanna a due anni, poco tempo fa, era stata decisa per il possesso di appena un chilo di hashish.
Bastano quindi 10 mila euro per uscire indenni da un reato così grave come la vendita di oltre 30 chili di stupefacenti? E ancora: la sentenza di Bergamo rappresenta il primo passo per una giustizia «di modello americano» con tanto di cauzione e dunque, come si usa dire, «fa giurisprudenza»?
«Quella di Bergamo è la decisione esemplare di una magistratura illuminata» commenta con Panorama l’avvocato Alexandro Maria Tirelli, difensore di Tantane. «Al di là delle riflessioni sulla liberalizzazione delle droghe leggere, si tratta di una pronuncia giudiziaria che traccia un percorso a cui ispirarsi. Serve a poco un uomo in galera per condotte ormai non percepite come fortemente antisociali: che paghi in una maniera conveniente per i soggetti della collettività, anche in termini patrimoniali».
Il che ci riporta, appunto, al tema della cauzione. Il diritto creativo italiano, che ormai imperversa nei tribunali e trova suggello e legittimità in Cassazione (come accaduto con il concorso esterno mafioso, reato costruito in camera di consiglio ma non presente nel codice penale), riserverà altre sorprese?
«Purtroppo il nostro Codice vuole scimmiottare il sistema accusatorio americano, ma il giustizialismo che caratterizza il Paese impedisce un reale ammodernamento della giustizia. Mi associo alle osservazioni di Claudio Cicchella, procuratore generale di Perugia: in Italia permane una visione della pena frutto di una visione paternalistica della politica giudiziaria, di matrice statalista e non liberale e non volta alla tutela del singolo individuo» prosegue Tirelli. «Una nazione seria deve invece possedere strumenti che funzionano, così che anche le pene siano efficienti e utili alla comunità e al condannato, tanto da un punto di vista retributivo che di “risocializzazione”».
Dunque: sì alla cauzione pure in Italia? «Lo Stato deve scegliere razionalmente cosa sia più vantaggioso per i cittadini e per se stesso. Se questo istituto migliora l’efficienza dell’intero sistema, perché non aprire una riflessione?». Tirelli, che è anche presidente delle Camere penali del diritto europeo e internazionale, pone infine l’accento su un altro tema che rischia di squilibrare l’amministrazione della giustizia. «Non posso tacere un profilo preoccupante che trasforma la geografia della giustizia italiana in una realtà a macchie di leopardo: la disomogeneità tra le decisione dei tribunali nostrani, nelle varie sedi giudiziarie, in relazione a episodi identici. I fatti di Bergamo, le stesse identiche condotte, sarebbero state sanzionate con svariati anni di prigione, specialmente nel Meridione. Siamo di fronte, lo dico ironicamente, al federalismo penale».
L’esatto opposto della frase che campeggia nelle aule, alle spalle dei giudici.
