La vorremmo perfetta, ma l’evoluzione ha deciso altrimenti: più che abbellire la nostra vita, la memoria serve per sopravvivere. E come funziona davvero, ce lo racconta un famoso neurobiologo.
La memoria è Terra Ignota. Cerchiamo, ogni giorno, di orientarci, piantare metaforici cartelli «per di qua», illuminare zone d’ombra, ripercorrere sentieri perduti, la realtà è però che i ricordi fanno un po’ quel che vogliono. Rammentiamo tediose poesie manzoniane (Ei fu. Siccome immobile…, è inutilmente scolpita nei nostri 80-90 miliardi di neuroni), scordiamo dove abbiamo parcheggiato l’auto la sera prima e ci tocca setacciare il quartiere. Non se ne va quell’imbarazzante pessima figura di tanti anni fa, ma perdiamo di vista un appuntamento importante. E mentre cifre, parole ed eventi si fanno nebulosi, ci chiediamo come sia possible che nostra suocera, a 93 anni e con irritante autocompiacimento, riesca a ripetere il proprio codice fiscale e a comporre al volo cinque numeri di telefono. Il controllo su ciò che siamo in grado di rievocare, e l’aprire quando vogliamo i nostri «cassetti dei ricordi», è un dono che pochi possiedono. E nelle tante promesse di affinare le prestazioni mnemoniche con integratori, super food, attività fisica, sonno, app e videogiochi appositi, qualcosa serve davvero, qualcosa chissà, molto altro no. A spiegarci come funziona la nostra memoria è il neurobiologo Andrea Levi, che dopo aver lavorato al Cnr, allo UCD Conway Institute di Dublino, al National Institute of Health di Bethesda e al Weizmann Institute of Science di Rehovot, ora ha appena pubblicato per il Saggiatore Genetica dei ricordi, come la vita diventa memoria.
Perché dimentichiamo senza volerlo, i ricordi sfuggono e non abbiamo un controllo migliore della nostra memoria?
Perché la memoria è una qualità umana e animale selezionata dall’evoluzione con uno scopo preciso, ossia ricordare non ciò che piace a noi in funzione edonistica, i «momenti belli», ma ciò che nel passato servirà per essere usato nel futuro.
Una funzione operativa?
Un meccanismo utile per muoversi in un mondo che non cambia molto nel lasso di tempo in cui si vive: qualcosa che se lo impari ti vale per la vita. Sul resto abbiamo meno controllo perché l’evoluzione ne sa più di noi: la priorità è sopravvivere e adattarsi.
Le cose importanti vengono selezionate, quelle non rilevanti si rimuovono perché impicciano. Solo dopo viene la parte edonistica, abbellita, che ci dà il senso della nostra identità. Faccio un esempio. Se lei esce con gli amici e dopo aver mangiato una pizza ai funghi si sente male, cosa ricorderà? Più che le chiacchiere, il locale, com’era vestita, nella memoria resterà che la pizza ai funghi va evitata. Il resto sono orpelli.
Chiaro. Ma con gli anni la memoria vacilla, pure questo è inevitabile?
Combattere l’invecchiamento non è previsto dalla selezione naturale, che ha interesse a portarci fino all’età della riproduzione e un po’ oltre, poi ci abbandona al nostro destino. Dopo di che qualunque meccanismo che aiuta a mantenersi bene, e vale anche per il cervello, è ridondante, consuma risorse quindi non viene selezionato. Prolungare la longevità è qualcosa di abbastanza irrilevante. Un po’ come nei moderni smartphone.
Ossia?
Con il tempo che passa saltano fuori i difetti di fabbrica, ma è inutile avere un modello di telefonino che duri 10 anni, non vale la pena, è complicato e costoso. E così è per noi e per le nostre attività cognitive. La natura è molto pragmatica, investe laddove c’è un ritorno.
ntanto, per contrastare il declino cognitivo, vanno molto di moda integratori, app, videogiochi… Facciamo bene a usarli?
Diciamo che è un ottimo business, ma finisce lì. Uno studio ampio e randomizzato che colleghi il consumo di integratori a una migliore efficienza cognitiva non esiste. Andrebbe dimostrato. E lo stesso discorso si può fare per app e videogame «mentali». Forse un piccolo effetto c’è, ma di nuovo, mancano evidenze scientifiche.
Però mantenere attiva la mente aiuta.
L’invecchiamento del cervello può in effetti essere contrastato da attività mentali, come ritardare il momento di andare in pensione, mantenere una buona socialità. Io, per esempio, leggo e faccio sudoku. Sembra poi che lo sport aiuti la neurogenesi, ossia la nascita di nuovi neuroni.
Quando dobbiamo preoccuparci davvero se cominciamo a dimenticare le cose?
Nella maggior parte dei casi le dimenticanze sono semplicemente il segno di un fisiologico invecchiamento del cervello. Diverso se appaiono sintomi che persistono e peggiorano, quelli sono campanelli di allarme, come perdersi in strade familiari, o addirittura in casa. Altrimenti la memoria può perdere colpi anche solo per lo stress, la depressione, il dormire poco e male, il dover fare tante cose nello stesso tempo. Più che dimenticanze, spesso sono distrazioni.
A proposito di sonno. È vero che «fissa» i ricordi?
Lo si è visto in topi di laboratorio, messi in labirinti con elettrodi sul cervello per vedere quali aree si accendono: si attivano particolari neuroni che servono a capire dove si è nello spazio: le place cells, neuroni del luogo. Poi, quando il topo dorme, gli elettrodi mostrano che nel sonno si riaccendono proprio i neuroni del luogo, nell’ordine in cui si erano attivati nel labirinto. La deduzione è che il topo stia sognando e il sogno agisca come una ripetizione. Studi simili sull’uomo sono più difficili, perché andrebbero fatti con la risonanza magnetica nucleare.
Quindi dormire e sognare potenzia la memoria.
Aiutano perché fanno rivivere le esperienze diurne. Ma esiste anche una componente del sonno che serve a dimenticare le cose non importanti, a eliminare le «scorie». Negli Stati Uniti gli scienziati Giulio Tononi e Chiara Cirelli conducono su questo parecchi studi: affinché la traccia di una memoria continui, occorre rafforzare le connessioni tra neuroni, se sono tante va potenziata solo quella importante. Come urlare in una stanza affollata per farsi sentire: nel sonno succede qualcosa di simile, si «abbassano» tutte le voci meno rilevanti, restano quelle con un tono più alto. Così si dimenticano i ricordi inutili.
Possiamo immaginare che le memorie siano stipate in aree distinte del cervello, come in tanti cassetti?
No, la memoria non ha un tessuto semplice, è fatta di tanti elementi, sensoriali, di auto-coscienza e percezione del sé. Un ricordo è formato da popolazioni di neuroni contemporaneamente eccitati, sparsi in più regioni del cervello connesse tra loro, che insieme concorrono a creare uno stesso ricordo.
C’è anche l’ipotesi che noi non dimentichiamo, solo non sappiamo dove ripescare i ricordi…
A volte incastoniamo un ricordo in qualche angolo della memoria fino alla sua futura emersione. Esistono appigli per recuperare eventi del passato con gli spunti giusti. In qualche modo è la base della psicoanalisi. Ma che sia così per ogni ricordo è poco credibile e soprattutto non è dimostrabile. L’oblio, come dicevo, è funzionale. E poi è inevitabile perdere un certo numero di neuroni nella vita, anche se una certa neurogenesi esiste anche nell’adulto.
La buona memoria si eredita, come l’altezza o il colore degli occhi?
La genetica conta, ma relativamente: se ho un certo patrimonio genico aumenta la probabilità di avere le stesse potenzialità mnemoniche di mamma e papà che me lo hanno fornito. Ma la memoria è molto poligenica, cioè, dipende dalla collaborazione di molti geni. Tanto più una nostra facoltà è poligenica tanto meno è probabile che abbiamo ereditato la forma «giusta» di ogni singolo gene. Per di più la nostra memoria dipende in gran parte anche da fattori non ereditari quali l’istruzione, l’esercizio e lo stile di vita.
Come si spiegano i falsi ricordi, o i famosi déjà vu?
Avviene perché rievocando un episodio, è difficile che si stimolino esattamente gli stessi circuiti neuronali. L’ossatura della memoria è quella, ma per qualche motivo se due circuiti vicini si muovono in contemporanea, magari si saldano tra loro dando luogo al ricordo, però falsificato per così dire.
Non ricordiamo quasi mai, invece, la nostra prima infanzia. È un peccato no?
Prima dei tre anni è molto difficile: l’ippocampo, l’area che ha un ruolo chiave nella memoria, è ancora poco formato. Nell’infanzia poi nascono di continuo nuovi neuroni che si inseriscono nei circuiti preesistenti alterando le connessioni. È possibile che questo contribuisca a distruggere le memorie già formate.
Il suo primo ricordo?
Ho una vaga immagine di me che andavo al pre-asilo e le bambine più grandi mi aiutavano ad allacciarmi le scarpe. Ma non so neanche se sia veramente il primo ricordo, forse è qualcosa nato da quello che mi raccontava mia madre.
