Home » Attualità » Economia » «Chiudere l’ex Ilva è follia»

«Chiudere l’ex Ilva è follia»

«Chiudere l’ex Ilva è follia»

I clienti della fabbrica di Taranto spiegano perché i danni per l’industria manifatturiera italiana sarebbero gravissimi. E comprare l’acciaio cinese non è economicamente sostenibile.


Ma alla fine, possiamo davvero fare a meno della grande acciaieria di Taranto? C’è una parte dell’opinione pubblica, dei politici e della stampa secondo la quale sì, si deve chiudere l’impianto siderurgico pugliese e in particolare l’area a caldo. Troppi i problemi che ha causato l’inquinamento della fabbrica, troppo pesanti le sentenze della magistratura e poi in giro per il mondo c’è tanto di quell’acciaio che considerare l’ex-Ilva strategica non avrebbe senso. Se però si interpellano i clienti di Acciaierie d’Italia (così si chiama ora l’industria siderurgica) si scopre una realtà ben diversa che rivela il ruolo fondamentale rappresentato dall’impianto di Taranto per l’economia nazionale.

«L’Italia ha un’industria manifatturiera che si basa sull’acciaio e lo stabilimento di Taranto è decisivo: produce coils e acciaio piano e il nostro Paese è sempre stato deficitario di quel prodotto» racconta per esempio Andrea Gabrielli, presidente dell’omonimo gruppo padovano attivo nella trasformazione e commercializzazione di prodotti siderurgici e cliente dell’impianto di Taranto fin dai tempi dell’Italsider. «Per la nostra azienda la chiusura dell’ex-Ilva, pur ridimensionata com’è adesso, sarebbe una iattura, faremmo fatica a trovare materia prima».

Gli fa eco Riccardo Benso, presidente di Assofermet, che rappresenta circa 500 aziende trasformatrici e commercianti di acciaio, rottami, metalli e ferramenta, e titolare di un’impresa che lavora i laminati piani per poi venderli a chi produce, per esempio, elettrodomestici, mobili metallici o mezzi di trasporto: «La chiusura dell’acciaieria avrebbe un effetto molto grave e insostenibile per il sistema Paese. Una grande potenza manifatturiera come l’Italia deve produrre acciaio colato da minerale, così come fa la Germania. Eliminare l’area a caldo di Taranto sarebbe una follia e provocherebbe una serie di conseguenze gravi sul tessuto produttivo italiano. Nessun altro in Italia produce gli acciai che si fanno nell’ex Ilva».

Come ricorda Eufrasio Anghileri, a.d. del gruppo Eusider, «nel 2020 Taranto ha prodotto 3,5 milioni di tonnellate. L’obiettivo per il 2021 sarebbe stato di tornare a 5 grazie al pieno funzionamento di tre altiforni nella seconda parte dell’anno. Questo milione e mezzo di tonnellate in più sul mercato potrebbe fare la differenza e contribuire a un maggiore equilibrio tra domanda e offerta».

A chi sostiene che si può fare a meno dell’impianto siderurgico pugliese perché a livello mondiale c’è sovrapproduzione e quindi si può comprare acciaio dalla Cina, Benso replica che è una sciocchezza: «È vero che l’Asia ha una capacità produttiva superiore alle sue necessità, ma in Europa di fatto non possiamo acquistare il suo acciaio, se non in minima parte. Il mercato mondiale è ormai forzatamente regionalizzato, non è più globale, perché ci sono tantissime barriere protezionistiche. La Cina produce circa il 55 per cento dell’acciaio mondiale ma in Europa non riesce a vendere i suoi prodotti, tranne qualche eccezione per il settore dell’auto, perché sono coperti da dazi».

I dazi sono stati imposti dall’Europa per proteggere l’industria siderurgica dalla concorrenza dei cinesi, che terrebbero i prezzi artificialmente bassi, praticando appunto il dumping. A quei dazi si sono aggiunte nel 2018 le quote di importazione, introdotte dopo che gli Usa di Donald Trump avevano deciso di limitare gli acquisti di acciaio da Pechino provocando di conseguenza un’ulteriore pressione sul mercato europeo. Per farla breve: chi vuole comprare acciaio fuori dall’Europa rischia di pagare una tassa del 25 per cento. Tali misure di salvaguardia scadranno il 30 giugno e vista la grande difficoltà di approvvigionamento che sta investendo la manifattura europea, sono in molti a ritenerle del tutto superflue e persino controproducenti.

Secondo Benso continuare a proteggere l’industria europea dell’acciaio è senza senso perché la materia prima manca e le aziende manifatturiere non riescono a lavorare: «All’alba di una ripresa fortissima, anche in conseguenza degli investimenti attesi a seguito del Recovery Plan, ci troviamo ad affrontare una raffica di rincari dell’acciaio che ha visto il suo prezzo triplicare in un anno. E questo può danneggiare gravemente l’industria manifatturiera europea: immagini come fa un produttore di elettrodomestici o un costruttore di navi a reggere la concorrenza internazionale con questi prezzi delle materie prime. C’è un sfasamento tra domanda e produzione di acciaio previste in Europa nel 2021 che viaggia intorno ai 10-20 milioni di tonnellate, a seconda di chi propone i “forecast”. Siamo in deficit e abbiamo bisogno di importare più materia prima. E che Taranto aumenti la sua produzione al più presto, salvaguardando l’ambiente».

Ma anche nell’ipotesi di avere un mercato aperto alle importazioni dall’Asia, Benso ammette che preferirebbe rifornirsi da un produttore locale come l’ex-Ilva: «Ho meno rischi logistici, ottengo consegne più brevi e favorisco un partner storico e strategico».

© Riproduzione Riservata