Willem Dafoe racconta il film claustrofobico The Lighthouse in cui cui l’attore, guardiano del faro con Robert Pattinson, deve affrontare demoni personali in un crescendo di follia e claustrofobia. A Panorama parla di come la sua faccia abbia influenzato la carriera. «Con lineamenti così, la parte del malvagio mi viene benissimo».
Cosa succede quando due uomini, per colpa delle circostanze, rimangono intrappolati troppo a lungo in un luogo angusto?». La domanda che pone Willem Dafoe al cronista di Panorama non suona così strana. D’altronde anche lui, come milioni di persone, ha passato un lungo periodo in isolamento durante l’emergenza Covid. Ma il quesito della 67enne star americana, interprete indimenticabile di film come Platoon, L’ultima tentazione di Cristo, Spider-Man e The Florida Project, solo per citare alcuni dei 140 titoli girati, non riguarda la pandemia, bensì l’horror gotico The Lighthouse, che arriva ora in streaming su Netflix quattro anni dopo il suo debutto al festival di Cannes. Nella pellicola di Robert Eggers, Dafoe interpreta Thomas Wake, un vecchio guardiano del faro barbuto e scostante che un giorno accoglie il suo nuovo aiutante Ephraim Winslow (Robert Pattinson). L’anziano fa capire subito al giovane chi è che comanda, obbligandolo a svolgere i lavori più umili e privandolo del piacere di occuparsi della luce del faro, che invece lui visita, misteriosamente nudo, come fosse fonte di un’energia magica. Presto però sull’isola arriva una tempesta, che costringe i due a rifugiarsi nel faro, dove l’isolamento e l’alcol iniziano a far perdere loro il senno. Ciascuno dovrà fare i conti non solo con un compagno di lavoro che ormai considera ostile, ma anche con allucinazioni e i propri demoni personali. «Una sera sono andato al cinema Angelika di New York a vedere questo piccolo horror, The Witch, di Robert Eggers» racconta Dafoe. «Non avevo idea di chi fosse, ma ho trovato il film sensazionale, ne sono rimasto affascinato tanto che la sera dopo ci ho portato mia moglie (l’attrice italiana Giada Colagrande, ndr). Così ho cercato Eggers, ci siamo incontrati, ho capito di avere una affinità e alla fine gli ho chiesto di coinvolgermi nel suo prossimo progetto. Spesso mi è capitato di cercare i registi con cui volevo lavorare».
Ne ricorda qualcuno in particolare?
Wes Anderson. Mi sono detto che volevo entrare anch’io dentro uno dei suoi mondi affollati di personaggi curiosi. L’ho chiamato, è venuto a uno spettacolo teatrale che stavo facendo a New York e poi siamo usciti a cena. È stata una serata speciale, ma quando gli ho chiesto di fare un film con lui mi ha detto che ci sarebbe voluto un po’: stava per girare Le avventure acquatiche di Steve Zissou, ma il cast era al completo.
E quindi?
Mi sono detto: ci ho provato. Invece due mesi dopo un attore ha dato forfait per lavorare a un altro progetto ad alto budget in cui lo pagavano di più, e lui mi ha richiamato offrendomi il ruolo di Klaus. Mi piace molto quel film.
Riguarda spesso i suoi lavori?
Ogni tanto, ma al di là della riuscita, e non tutti sono riusciti sempre al meglio, li guardo come fossero foto che richiamano memorie. Personalmente non provo affetto per il risultato finale, bensì per l’esperienza sul set: un periodo di due o tre mesi in cui magari sei stato in una location esotica, hai attraversato qualche difficoltà o hai imparato un’abilità nuova. Sono tutti episodi della vita in cui accadono cose che ti coinvolgono profondamente, e in qualche modo ti cambiano.
Come vive le emozioni dei personaggi? Segue il cosiddetto metodo secondo cui, per interpretare qualcuno, devi diventare quella persona?
Assolutamente no. Per me un personaggio si rivela attraverso le sue azioni e quindi non penso mai alle emozioni come spunto principale, sono molto pragmatico, mi fido dell’intuito più che di un’analisi psicologica. Certo, poi la lavorazione a volte influisce sul tuo stato d’animo: come in The Lighthouse, in cui ho abitato da solo in una casetta per vivere quel senso di isolamento. Ma in ogni caso non sono di quelli che devono restare sempre nella parte: quando i riflettori sul set si spengono torno alla mia esistenza.
Da dove deriva questo approccio?
Dalla mia formazione. Ho cominciato a recitare giovanissimo, senza esperienza, in un teatro comunitario, per divertimento. Poi ho iniziato a fremere per palcoscenici più importanti e nel 1976 mi sono trasferito a New York dove mi sono unito al Wooster Group, che non era una compagnia tradizionale: io ero l’unico attore, circondato da poeti, pittori, designer, musicisti, danzatori, che mi hanno influenzato. Non essendo professionisti, l’approccio alla recitazione era molto pratico.
In The Lighthouse lei ha uno sguardo minaccioso. Spesso, nella sua carriera, ha interpretato personaggi malvagi…
Guardi la mia faccia: se non sei un bello convenzionale non sanno che parti affidarti, così ti danno quello del cattivo. Agli inizi ne ho interpretati a dozzine. Fare questi ruoli è difficile perché a volte rischi di andare sopra le righe, mentre se ti attieni al copione puoi sembrare troppo meccanico. Però i personaggi folli sono divertenti. Mio padre era un uomo perbene, un chirurgo stimato che lavorava duro, andava a messa tutte le domeniche, non ha mai bevuto e ha avuto la stessa donna per tutta la vita. Un giorno mi ha preso in disparte e mi ha detto: «Adoro quel film in cui interpreti lo stupratore!». È la fantasia proibita di tutti fare qualcosa di illecito, ecco perché i malvagi al cinema affascinano tanto.
Lei però poi ha esplorato tanti generi, molti registi, ha interpretato film indipendenti ma anche hollywoodiani.
Già, Spider-Man. Mi chiedono spesso che c’entrasse con altre pellicole minori, e la mia risposta è che con Sam Raimi mi sono divertito tantissimo. Tra l’altro avevo delle scene d’azione e mi piacciono sempre parti che mi impegnano fisicamente.
Lei ha cambiato tanto anche perché ha avuto paura di essere incastrato nel ruolo del «villain», del cattivo, è così?
Ho cambiato perché sono curioso e ho sempre voluto mettermi alla prova con cose che mi creavano disagio, ruoli che non sapevo se avrei potuto sostenere. È vero che a Hollywood hanno la tendenza ad appiccicarti un’etichetta, ma questo finisce per rendere la tua carriera decisamente piatta e io ho cercato di evitarlo. A me piace scomparire nel personaggio e non diventare il «brand» principale per vendere un film.
Qual è il suo rapporto col successo?
Quando Cuore selvaggio ha vinto la Palma d’oro sono stato molto felice. Ma ho avuto anche tonfi clamorosi. Ricordo che girai Lulu on the bridge e il regista, lo scrittore Paul Auster, dopo la proiezione a Cannes mi disse: le recensioni sono orribili, siamo morti. La vita dell’attore è fatta così: a volte sei in alto, a volte cadi giù e devi abituarti. Ricordo di essere andato al party del film Parnassus di Terry Gilliam che era stato massacrato dai critici. Arrivai e vidi Johnny Depp seduto in disparte. Quella sera non gli si avvicinò nessuno. Chi l’avrebbe mai detto?