Steve McCurry è uno dei più grandi fotografi contemporanei capace in uno scatto di cogliere meraviglia e forza della vita quotidiana dell’umanità. A Trento, le sue «Terre alte» raccontano un mondo in altitudine, fragile e straordinario.
Arriva, nella sede originaria del Mart, Palazzo delle Albere a Trento, la mostra con cui si riparte, non solo dopo la triste stagione delle chiusure, ma anche dopo gli anni in cui il glorioso istituto era stato fagocitato e poi annichilito dal Muse, il museo delle Scienze del capoluogo. Si trattava di trovare una combinazione nuova che corrispondesse alla vocazione di entrambi i musei. E la si è trovata nella fotografia geografica e nel teatro della memoria.
La cosa che più colpisce, nelle fotografie di Steve McCurry, è che nulla indica la condizione di emergenza o pericolo in cui esse sono state concepite e realizzate. Il suo occhio è guidato da una concezione irenica, orientale, fatalistica, come di chi, nato in America, si è formato e rigenerato in India. Così quando, nel 1979, attraversò il confine tra Pakistan e Afghanistan, travestito con costumi locali, le sue fotografie non documentarono la situazione di tensione e guerra determinata dal conflitto tra i ribelli e gli invasori russi ma la vita quotidiana, la condizione umana oltre il dramma e la paura.
Nel corso della sua vita avventurosa (ma sempre intimamente serena) si è infiltrato tra i mujaheddin travestito da Pashtun, lo hanno arrestato in Pakistan e Birmania, gli hanno sparato ed è stato derubato in Afghanistan, ha camminato su un campo minato durante la prima guerra del Golfo tra i pozzi di petrolio in fiamme.
Nonostante tutto questo, il suo interesse non è documentare l’emergenza ma la stabilità, la quotidianità, l’umanità, nella varietà del mondo. E preservare l’integrità e la bellezza del mondo, così labili. È lui stesso a dichiararlo: «La maggior parte delle mie foto è radicata nella gente. Cerco il momento in cui si affaccia l’anima più genuina, in cui l’esperienza s’imprime sul volto di una persona. Cerco di trasmettere ciò che può essere una persona colta in un contesto più ampio che potremmo chiamare la condizione umana. Voglio trasmettere il senso viscerale della bellezza e della meraviglia che ho trovato di fronte a me, durante i miei viaggi, quando la sorpresa dell’essere estraneo si mescola alla gioia della familiarità».
La scelta, per questa nuova stagione della attività espositiva di palazzo delle Albere, in concerto tra Mart e Muse, è nel titolo Terre alte, a indicare la condizione umana, e la variante antropologica della popolazione che vive in montagna, per evidente riferimento al conforme habitat del Trentino. È la conveniente scelta della curatrice Biba Giacchetti: «Il tema della mostra afferma la tesi che paesaggi sconfinati e popolazioni delle montagne pur a latitudini diverse, e con situazioni sociali e storiche tanto difformi, sono accomunati da un fattore antropologico che dalla montagna stessa è strettamente influenzato. Le condizioni di vita, le oggettive difficoltà legate all’agricoltura, l’importanza dei pascoli, la risorsa della conoscenza del territorio che può essere un’arma potente di difesa di fronte ai pericoli delle invasioni, la forza del carattere, la fermezza e la dignità e un senso di positivo rispetto per la natura che circonda e domina, forgiano una sorta di medesima identità».
E auspicabile sarebbe che dal Trentino e dalle sue montagne McCurry tornasse con immagini cariche della forza e della vita che sono dentro di lui, sottraendo quei paesaggi alla dimensione della cartolina e innalzandoli a luoghi dell’anima, a specchi di Dio che, nella montagna, si manifesta più che altrove. Hic et nunc.
Da un’altra, memorabile, spedizione esce il volto di quella ragazza afghana incontrata in un campo di profughi vicino a Peshawar, in Pakistan. Così sorprendentemente vivo da essere diventata una delle fotografie più riconosciute di tutti i tempi, scelta come copertina della rivista National Geographic nel giugno del 1986.
L’identità della ragazza afghana è rimasta sconosciuta per oltre 17 anni, fino a quando McCurry ritrovò la donna, Sharbat Gula, nel 2002. Quando finalmente la rivide, disse: «La sua pelle è segnata, ora ci sono le rughe, ma lei è esattamente così straordinaria come lo era tanti anni fa», più forte del tempo, delle avversità, dei disagi.
L’umanità si manifesta forse meglio nelle difficoltà e nei tumulti; e così troviamo McCurry in ogni luogo di conflitto, in Iran-Iraq, a Beirut, in Cambogia, nelle Filippine, in Afghanistan, durante la Guerra del Golfo; ma le fotografie restituiscono, ovunque, popolazioni e individui, e specie animali, di assoluta dignità, e una natura potente e tranquilla. McCurry fotografa anime ansiose, parlanti, ma anche paesaggi assoluti, incontaminati, nei quali cala la sua anima e il suo piacere di vedere la molteplicità del mondo, in Brasile come in Etiopia, in Birmania come in Kosovo, nello Yemen come in Uganda, in Giordania come in Mongolia, in India come in Marocco, in Tibet come in Nepal. Ogni luogo del mondo, la Slovenia, le Filippine, il Kashmir e ora l’Italia, è sorprendente, miracoloso. Fotografo di guerra, McCurry cerca la pace, rappresenta episodi e momenti di armonia. È il fotografo della luminosità della natura.
L’umanità non sa più fermarsi, travolta dal progresso; e la pausa di questi tempi difficili non è stata sufficiente a restituirci coscienza di ritrovare il tempo lento di alcune parti miracolosamente preservate del mondo: luoghi santi, terre alte: «Il dramma è che la pandemia, che spero si risolva, non ci insegnerà niente. Sì, le persone ne sono state travolte, la loro vita quotidiana è stata bruscamente interrotta e l’inquinamento ha subito una battuta d’arresto. Ma quando finirà, se finirà, la gente avrà fretta di tornare alle proprie abitudini, al proprio lavoro e alla propria squadra del cuore. E sarà così fino a quando mezza Florida oppure l’Olanda non saranno sott’acqua e i governi dovranno imporre una politica per correre ai ripari… Era da quando avevo 19 anni che non mi fermavo in un posto così tanto tempo. Ho trasformato questo periodo surreale di blocco forzato in una benedizione del cielo. Certo, ho annullato molti progetti ma in compenso mi sono dedicato ai miei archivi, alla mia famiglia, ai miei amici».
McCurry ha già visto tutto e lo ha fermato e salvato per sempre nelle sue fotografie, integre come monoliti e immortali, nonostante la loro apparente fragilità e dissolvenza. La fotografia è un monumento invincibile e indistruttibile: «Exegi monumentum aere perennius», ho eretto un monumento più duraturo del bronzo, come ha scritto Orazio.
McCurry ha una sola ansia: documentare la molteplicità e la meraviglia del mondo prima che spariscano nella terribile accelerazione del tempo che tutto umilia e rende uguale. I dettagli di un abito stracciato, le mani sporche di un minatore, lo sguardo fiero e minaccioso di un talebano, le montagne, i fiumi, le valli dell’Afghanistan, la catena dell’Hindu Kush, l’altopiano del Rigestan, la depressione salina del Sistan, l’infinito silenzio delle voragini dove erano i Buddha di Bamiyan: tutto deve rimanere in una memoria del mondo. Le perfezione delle immagini discende dall’ansia che tutto sparisca. Occorre fermare il tempo, prima che il tempo ci travolga.