Nel nuovo libro del critico di Panorama, un viaggio attraverso l’opera e gli incontri del pittore che meglio di ogni altro ha rappresentato intensità e trasformazioni dell’animo umano. Dalla perfezione geometrica della Scuola d’Atene agli ultimi ritratti, mirabili e inquieti, che già fanno presagire un cambio di epoca.
Dopo l’esperienza di Perugino e di Pinturicchio, Raffaello Sanzio finalmente dipinge la sua prima pala d’altare nel 1501, la sua prima opera degna di nota. Purtroppo è una pala mutilata, di cui l’elemento più grande è conservato a Capodimonte, con la Madonna che tiene la corona, probabilmente c’era un Cristo sottostante. L’angioletto, meraviglioso, è conservato alla Tosio Martinengo, la pinacoteca di Brescia: un frammento tagliato della tavola, in cui si comincia a sentire una dimensione spirituale senza precedenti. Tanto era inespressivo il padre, quanto è intenso il figlio, con quell’angelo dal volto colmo di beatitudine.
Siamo nel 1501, e probabilmente è già intercorso un dialogo tra Raffaello e Leonardo da Vinci, il primo pittore che rappresenta stati d’animo e angeli dall’intensa spiritualità, come questo di Raffaello. Ma non mancherà di stupire l’altro angelo, recuperato non più di 25 anni fa, quando un tassista portò al Louvre una fotografia per mostrarla all’allora direttore Michel Laclotte. Questi non prestò attenzione alla foto.
Il tassista caricò qualche mese dopo Sylvie Béguin, grande studiosa, mia amica, dicendo: «Io avrei una cosa. Posso fargliela vedere?». E lei portò al Louvre questo pezzo di Raffaello, proprietà di un tassista, pagato 80 milioni di vecchie lire.
L’ultimo acquisto di Raffaello è dunque un frammento della Pala di Tolentino, la quale, come si vede nell’angelo, carico anch’esso di una spiritualità intensa, ha anche il motivo bello del cartiglio; opera di un pittore giunto a un magistero che lo rende – siamo ai suoi 18 anni – un artista ormai autonomo. L’opera è stata concepita per la chiesa di Sant’Agostino, a Città di Castello.
A Perugia, Raffaello già autonomo può dipingere la Pala degli Oddi. Ha 19 anni; concepisce, come farà poi più avanti solennemente nelle Stanze Vaticane, il livello degli uomini sulla Terra, con volti stupiti, colpiti, davanti al sepolcro vuoto pieno di fiori, in alto Cristo che incorona la Vergine. Ancora una volta, in questo schema un po’ rigido, sono meravigliosi gli angeli musicanti: uno suona il tamburello, uno la viola. Hanno una libertà di movimento senza precedenti, oltre quanto Perugino aveva insegnato a Raffaello.
E, ancora, la Pala Colonna, per la chiesa di Sant’Antonio a Perugia. Raffaello ha in mente il prototipo meraviglioso di Piero della Francesca per la chiesa di San Bernardino a Urbino, ma ha bisogno di creare un libero cielo. Non è un’architettura interna, non è l’abside di una chiesa, è un’edicola montata nel cuore della natura. Raffaello avrà sempre questo dialogo, in tutti i suoi dipinti, con il paesaggio lontanante.
Qui, per la prima volta, si vede un bambino vestito, altra idea singolare, che sta benedicendo suo cugino Giovanni. Bellissima la Madonna, fortemente peruginesca, meravigliose le due sante, che ci guardano dal loro stato di beatitudine, mentre ai lati stanno, pensierosi, i santi Pietro e Paolo. Una composizione, forse la prima di Raffaello, di grande armonia. Siamo nel 1503. Raffaello ha compiuto 20 anni.
Dopo queste prime pale d’altare, arriva il capolavoro: lo Sposalizio della vergine per Città di Castello, ora conservata a Brera. Nello stesso tempo Raffaello si cimenta nei primi ritratti, fra il 1505 e il 1506. La critica più avveduta li attribuisce a lui anche se sono acerbi, piuttosto rigidi, tanto che permangono delle riserve.
Sono i ritratti di Guidobaldo da Montefeltro e di Elisabetta Gonzaga. La meravigliosa veste di lei sembra un’opera astratta, ricorda Gustav Klimt. Il volto turbato, pensieroso, emerge da un paesaggio di ascendenza leonardesca. Un po’ imbambolato, ma anche lui denso di pensieri che ne turbano la mente, è Guidobaldo. Io credo che i due ritratti si possano attribuire a Raffaello, ormai avviato verso la prima maturità con ritratti meravigliosi e Madonne con il Bambino in cui nessuno potrà inseguirlo.
Il Raffaello che dipinge il pensiero occidentale e sistema la chiesa nella storia è quello delle Stanze Vaticane. Il rapporto fra papa Giulio II e Raffaello è favorito da Donato Bramante. Ci racconta infatti Giorgio Vasari che il passaggio a Roma nel 1508 avvenne perché «Bramante da Urbino, essendo a’ servigi di Giulio II, per un poco di parentela che avevano insieme», in quanto erano molto vicini, uno a Fermignano e l’altro a Urbino, pressoché parenti, «e per essere di un paese medesimo», appunto il contado di Urbino, «gli scrisse che aveva operato col Papa, che, volendo far certe stanze [le Stanze Vaticane], egli potrebbe in quelle mostrar il valor suo». «Giunto Rafaello a Roma, trovò che gran parte delle camere di palazzo erano state dipinte e tuttavia si dipignevano da più maestri».
Ecco, questa parte delle Vite di Vasari illustra la situazione quando arriva Raffaello, nella cui mente, nel cui cuore, nella cui memoria c’era almeno il grande Piero della Francesca. Certo, Piero è più astratto, più lontano, più metafisico, ma le sue opere stanno dentro il sentimento e lo spirito di Raffaello. Nonostante ciò, Raffaello non si fece nessuno scrupolo a coprire gli affreschi di Bramantino, Bartolomeo della Gatta, Luca Signorelli e dello stesso Piero, per richiesta di Giulio II, compiendo un’opera di «vandalismo».
D’altra parte, nel passato, la coscienza storica non concepiva che ogni epoca andasse rispettata e, superato un gusto, si passava a un altro. E quindi nulla di strano che Raffaello dipinga sulle opere di altri artisti; però è degno di nota che dipinga anche su Piero della Francesca, il suo maestro ideale. Mi colpisce l’idea che mentre lo «aveva dentro», lo «faceva fuori», distruggendolo, anche se il suo gesto derivava da un ordine.
«Adornò ancora questa opera di una prospettiva e di molte figure, finite con tanto delicata e dolce maniera che fu cagione che papa Giulio facesse buttare a terra tutte le storie degli altri maestri e vecchi e moderni, e che Rafaello solo avesse il vanto di tutte le fatiche che in tale opere fussero state fatte sino a quell’ora». Raffaello non solo era persona di grande intelligenza, ma anche uomo contrastato tra la coscienza della storia e l’ossequio al Papa. Doveva essere lui ad affrescare tutte le pareti delle Stanze, e dare vita a un complesso straordinario.
Nella Stanza della Segnatura, di fronte alla Disputa del Sacramento, sta il più grande affresco della storia dell’arte e forse dell’umanità, la Scuola di Atene, il cui cartone preparatorio, restaurato, è nella Pinacoteca Ambrosiana a Milano. Davanti a quest’opera siamo veramente al punto più alto che la pittura abbia mai toccato per valori umani, filosofici e religiosi; anche religiosi, dunque, benché i filosofi non si muovano in una chiesa ma in un tempio, un tempio della conoscenza, posto nel cuore della Chiesa.
Nella piena maturità, mentre lavora alle sue opere più importanti – la Pala Sistina, la Madonna della seggiola, l’Estasi di santa Cecilia da inviare a Bologna – Raffaello dipinge il Ritratto di Baldassarre Castiglione, umanista, scrittore, che racconta la vita delle corti rinascimentali.
L’Uomo dal guanto di Tiziano Vecellio non è poi tanto lontano, nella sua sensualità e verità, da questo Ritratto di Raffaello. Tiziano, pittore vivo, vibrante, ci fa percepire l’avvertimento, come se qualcuno chiamasse l’uomo all’improvviso, determinando la torsione leggera del volto. E, ancora, Tiziano dipinge il celebre Ritratto di Ariosto in piena sensibilità raffaellesca. I ritratti, che sembrano concepiti nello stesso spirito, sono degli stessi anni.
Nel 1515 Raffaello dipinge Bindo Altoviti, e lo fa e lo mostra con una morbosità, con una sensualità, con un’aria un po’ femminea che ritroviamo nel Ludovico di Baviera di Luchino Visconti, Helmut Berger, un volto classico ma pieno di turbamenti. Il Ritratto di Altoviti è in sintonia con uno dei ritratti più sensibili della pittura, il Ritratto di giovane di Lorenzo Lotto, si somigliano: c’è qualcosa in Raffaello che contempla anche la sensibilità di Lotto.
Ed eccoci, in una coerente progressione, al doppio ritratto più bello del mondo, appartenuto a Pietro Bembo, il grande umanista. È il Ritratto di Andrea Navagero e Agostino Beazzano, due letterati, in cui c’è tutto Tiziano. In questo dipinto, ora a Roma alla Galleria Doria Pamphilj, Raffaello fa sentire la potenza, l’energia, la vitalità di questi due personaggi: sono parlanti, è come se li avessimo davanti a noi in carne e ossa.
Si deve ammettere che la sensualità, la morbosità, la pensosità di quel grande pittore che è Giorgione nei suoi tardi anni devono avere in qualche modo contagiato Raffaello nel ritrarre Agostino Beazzano. Immagino che Raffaello abbia visto il Ritratto d’uomo Terris, ora a San Diego, dipinto da Giorgione nell’ultimo anno di vita, il 1510.
Possiamo dire lo stesso rispetto all’altro personaggio del doppio ritratto, Andrea Navagero, in sintonia con un altro veneziano a Roma, Sebastiano del Piombo, che lavora per Chigi e dipinge lo stupendo Ritratto di Andrea Doria. Stesso mondo di Raffaello, stessa atmosfera, stessa capacità di far sentire vivi questi personaggi epocali. Ancora, dall’aria poco rassicurante, come stesse progettando chissà quali strategie, il cardinal Bernardo Dovizi da Bibbiena, il quale peraltro è l’autore della più grande commedia del Rinascimento, La Calandria, rappresentata al teatro di Urbino nel 1513.
Mi pare sia difficile immaginare un ritratto più bello dell’Autoritratto con un amico, ora al Louvre. Raffaello, uomo così perfetto, così capace di armonie, arriva a far percepire una rumorosa sensualità, nel suo ritratto, a sinistra. Vi ricordate com’era? Nell’autoritratto è ingrassato, turbato, denso di umori; davanti ha un amico che lo guarda. Questo quadro, di così travolgente bellezza, risale al 1518, ed è tra i più veritieri ritratti che siano mai stati concepiti, vivo, parlante. Raffaello che dialoga con la morte. E vive.