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Norman Mailer: «Il politicamente scorretto sono io»

Norman Mailer: «Il politicamente scorretto sono io»

Rissoso, sessista e assolutamente geniale. Lo scrittore americano si è sempre messo dalla parte del torto, per la morale e il «mainstream» intellettuale. Ma attraverso la biografia si capiscono il coraggio e la forza delle sue opere.


Quando morì, nel 2007, per insufficienza renale, sul Guardian – tempio della sinistra giornalistica britannica – Joan Smith lo salutò definendolo un «arciconservatore omofobo e sessista». Con inaudita ferocia, l’articolista infierì a cadavere ancora caldo spiegando che Norman Mailer «odiava l’autorità, l’omosessualità, le donne e quasi certamente sestesso, produceva narrativa e saggi che sarebbero stati comicamente brutti se non avessero mostrato dipendenza dalla violenza e dal sesso non consensuale».

Secondo Smith, Mailer «si lamentava amaramente della “femminilizzazione” dell’America», rivelando la sua paura patologica di una femminilità che considerava passiva e minacciosa allo stesso tempo. […] Più grande reazionario che grande scrittore, era un finto radicale che ha usato l’atmosfera da tabù degli anni Sessanta come copertura per una carriera basata sull’autopromozione».

Parecchio tempo prima, tra fine anni Sessanta e Settanta, altre femministe avevano utilizzato toni anche più decisi. La celebre Kate Millet, nel 1970, aveva iniziato a lavorare a un libro che sarebbe diventato fondamentale per le attiviste di tutto il mondo e l’avrebbe portata sulla copertina di Time: La politica del sesso, una sorta di massacro della letteratura dei «maschi bianchi occidentali». Con Mailer la signora fu spietata. Scrisse che era «prigioniero del culto della virilità», che considerava «la mascolinità come un capitale spirituale incerto, costantemente in cerca di nuove energie e minacciato da tutte le parti».

Alcune sue opere, in particolare Un sogno americano (1965) era un «grido di richiamo per una politica sessuale in cui la diplomazia ha fallito e la guerra è l’ultima risorsa politica di una casta dominante che vede la sua posizione in pericolo di vita». Attacchi ideologici, come no. In fondo, però, le ragazze non avevano tutti i torti. Il disprezzo femminista era evidente e probabilmente eccessivo. Ma i fatti elencati, beh, non erano totalmente frutto dell’immaginazione.

La biografia di Norman Mailer è costellata da quelle che oggi – ma pure decenni fa, quando il politicamente corretto era appena agli inizi – possono essere etichettate come malefatte. Il bello è che lui ne è sempre stato piuttosto fiero. In Pubblicità per me stesso, straordinaria raccolta di articoli, brevi saggi e brani letterari, scrisse: «Sono capitato in troppe zuffe, sono stato colpito alla testa da un martello e ho ricevuto una ferita all’occhio sinistro in una rissa di strada – e naturalmente ne sono orgoglioso (da bambino ero codardo fisicamente), e sono orgoglioso di avere imparato qualcosa su come si combatte anche se posso averla pagata cara. Ci sono state troppe zuffe per me, e troppo sesso, liquore, marijuana, benzedrine e seconal, e troppa, davvero troppa rabbia ridicola e paralizzante contro le minuscole frustrazioni di un disgustoso mondo letterario, un mondo necrofilo all’essenza – in cui si uccide uno scrittore e poi se ne decora la tomba».

Sì, Norman Mailer è stato un uomo di eccessi. In questo senso è stato un autore ultramoderno, d’avanguardia. Ha compreso l’essenza del mondo social prima che i social esistessero, per esempio. Come? Facile: esibendo ogni anfratto della sua vita privata, facendo – appunto – pubblicità a se stesso. Era sempre al centro delle polemiche, provocatore per vocazione, rissoso forse anche per attirare l’attenzione. Fatto e ubriaco come una rockstar, litigioso come un bullo di quartiere.

Si faceva protagonista di quasi tutti i suoi scritti, a costo di suscitare nausea nel lettore. E poi, di sicuro, amava esibire la mascolinità. Già nel 1954, quando ancora non era l’astro da settimanale patinato delle lettere americane, scriveva alla sorella di Beatrice Silverman, da cui aveva appena divorziato: «Perché mi sono sposato? Per il motivo per il quale lo fanno tutti: avere altre avventure. Niente matrimonio, niente infedeltà. E chi vorrebbe vivere senza il brivido dell’osceno? Si suiciderebbero a milioni».

Anche in questo aveva anticipato la contemporaneità, nella bulimia sessuale. Ebbe sei mogli (che gli diedero nove figli) e un esercito di amanti. La sua ultima consorte, Norris Church Mailer, nel libro A ticket to the circus (Un biglietto per il circo) ne celebrava – in fondo lusingata – l’insaziabile appetito: «Gli bastava darmi un’occhiata, nuda, coperta solo di sexy lingerie. Ogni volta qualcosa di diverso, ogni volta un gioco nuovo, il dottore, la manicure, il regista di Hollywood».

Sempre lei, intervistata in tv da Sam Donaldson, fornì un’interessante descrizione del ménage coniugale: «È come vivere allo zoo. Un giorno Norman è un leone, quello successivo una scimmia. Qualche volta è un agnello, e per larga parte del tempo è un coglione». Detto con affetto, ovviamente. E, comunque, niente che il diretto interessato potesse smentire: «Cominciai che ero un ragazzo generoso ma molto viziato», confessò Mailer in Pubblicità per me stesso, «e ora sembra sia diventato un brutto attaccabrighe un po’ suonato, che sa combattere pulito o sporco, ma al quale piace combattere».

A Norris Church, in fondo, era andata bene. Lei si era presa la parte finale dello spettacolo. Ad altre erano toccate le scene clou, e di sicuro non piacevoli. Alla fine del 1960, Mailer si candidò a sindaco di New York: in parte una provocazione, in parte l’ennesima esondazione del suo ego. Era in delirio di onnipotenza e di dipendenza da sostanze. Una sera organizzò una festa con circa 200 invitati nel lussuoso appartamento che condivideva con la moglie dell’epoca, Adele Morales.

C’era la crema della Grande mela intellettuale. Allen Ginsberg fu il primo ad azzuffarsi con un altro ospite. Poi cominciò Norman, sempre più ubriaco e drogato. Finì malissimo. Intorno alle tre di notte quasi tutti gli invitati se n’erano andati, Norman continuava a inveire contro i presenti, pretendendo che gli manifestassero il loro appoggio politico seduta stante. Arrivò al punto di inseguire qualche malcapitato che se l’era data a gambe. Rientrato a casa, intorno alle 4 e 40, riprese a litigare con la moglie, ubriaca anche lei. Adele lo derideva per la folle idea di candidarsi a sindaco, lui s’inferociva sempre più. «E alla fine, furioso, ho tirato fuori il mio temperino e gliel’ho infilato dentro con l’idea di… “Ecco, pensi di essere una dura, io sono più duro”. È stata una follia. Ero piuttosto ubriaco e forse fatto di erba. L’idea era di non farle alcun danno…».

La moglie non lo denunciò, ma il New York Post scrisse che «lo scrittore di talento aveva bisogno di aiuto psichiatrico» e la mostrificazione di Norman fu completata. Col tempo gli perdonarono anche quella, in realtà. Si era schierato con la sinistra radicale, si batteva contro la guerra in Vietnam, inveiva contro i conservatori, aveva fondato il giornale «alternativo» Village Voice: faceva comodo, dunque i raffinati intellettuali sorvolarono sulle mattane. A questo punto, concluso il proverbiale elenco di pazzie, il lettore savio potrebbe chiedersi: ma perché mai dovrebbe interessarci un tipo così? Perché Mailer è stato uno scrittore favoloso e un acuto osservatore della realtà.

Sì, appariva assatanato, ma anche ha amato molto le donne. E sulla femminilizzazione dell’Occidente aveva totalmente ragione. In Prigioniero del sesso scardinò la retorica femminista che oggi vediamo insistentemente riproposta. E lo fece con argomenti sacrosanti. Sì, amava le risse e i disastri, ma non aveva timore di lavare i panni sporchi in pubblico: si guadagnò le assoluzioni a caro prezzo, prestandosi al linciaggio. Era, in fondo, il vero erede di Ernest Hemingway, purtroppo con l’aggiunta di tante droghe e alcol in più. È stato davvero un combattente, praticava la boxe e ne scrisse meravigliosamente in La sfida, dedicato alle imprese di Cassius Clay. Era un maschio, e difese la mascolinità in parole e opere.

Aveva enormi debolezze e fragilità compensate da un ridicolo egotismo, e il dispendio di energie nell’autodistruzione gli impedirono di realizzare il suo grande sogno. Non riuscì a scrivere il Grande Romanzo Americano. Tutti continuano a considerare Il nudo e il morto (ripubblicato l’anno passato da La Nave di Teseo, che sta facendo riscoprire tutta l’opera maileriana), ma provate a leggere Il canto del boia, appena uscito in Italia, che gli valse il Pulitzer. È una sorta di meraviglioso reportage narrativo, effettivamente legato a A sangue freddo di Truman Capote. Viene da pensare che, dopo tutto, Norman fosse migliore come giornalista (tra i creatori del New journalism) e intellettuale militante. Ancora oggi ne parliamo non per i suoi tanti errori, ma nonostante quelli. E per meritarsi l’immortalità dopo una vita infernale, bisogna essere realmente straordinari.

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