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Maria Manetti Shrem: «Regalando arte ho realizzato il mio sogno americano»

Maria Manetti Shrem: «Regalando arte ho realizzato il mio sogno americano»

Appartata ma influente tra gli Stati Uniti e l’Italia, la sua storia è fatta di successi industriali, cadute e riscosse, di passioni e intuizioni. Poi, al culmine della propria fortuna, la mecenate fiorentina che vive a San Francisco ha fatto la sua scelta: sostenere decine di fondazioni di beneficenza, istituzioni e programmi culturali, con un’attenzione ai più fragili. Parlando in esclusiva con Panorama, dice: «per me vivere è donare».


Se fosse vissuta nella Firenze rinascimentale sarebbe stata una primadonna come Isabella d’Este. E come lei, sicuramente avrebbe fatto suo il motto: «Nec spe, nec metu», né con speranza, né con timore. Senza paura, risoluta, guerriera stoica, capace di ripartire da zero più volte, generosa e passionale. Maria Manetti Shrem, con le sue sublimi collane, l’immancabile rossetto rosso, il sorriso luminoso («Il mio primo marito mi chiamava shine, scintillante») è una delle mecenati più importanti al mondo. Seduta davanti a un antico arazzo, nella casa di San Francisco, con una semplice maglietta nera (ma con una delle sue preziose collane) racconta a Panorama una vita che fa impallidire quella di Rossella O’Hara. «Sono nata quando sono scoppiate le bombe. Il 10 giugno 1940, il giorno che Benito Mussolini annunciò l’ingresso dell’Italia in guerra, a Peretola dove oggi c’è l’aeroporto di Firenze». La filantropa dal leggero accento toscano, «Gemelli verace», sostiene più di trenta fondazioni di beneficenza tra America, Italia, Inghilterra (da anni è amica personale di re Carlo III).

Promuove oltre 50 programmi che spaziano dall’arte, alla musica operistica e sinfonica, fino alla ricerca medico-scientifica (soprattutto neurologia) e all’istruzione. Insieme al marito Jan Shrem ha realizzato il museo d’arte contemporanea dell’UC Davis, una straordinaria bottega in stile rinascimentale. E lo scorso settembre a Palazzo Strozzi, a Firenze, ha inaugurato il Maria Manetti Shrem Educational Centre, dedicato all’arte e all’inclusività. Il sindaco Dario Nardella le ha conferito le chiavi d’oro della città. «Ho sempre pensato che fosse meglio donare con le mani ancora calde. Che bisogno c’è di aspettare il mio trustee? Per me vivere è donare». E così ha trasformato la sua vita in un’incredibile opera d’arte.

«La mia era una famiglia modesta. Papà aveva una ditta di trasporti, la mamma era una donna eccezionale, io ho preso la sua forza. Mandava avanti la famiglia, ha cresciuto quattro figli. Ogni sera, alle sei, con la bicicletta andava a fare le iniezioni a tutto il vicinato. Aveva imparato curando la nonna malata di cancro. Dopo cena la ricordo china a cucire borse e cappelli di paglia, per guadagnare qualcosa in più». Finite le elementari allora si andava a lavorare: «Mia sorella a 12 anni era già impiegata a Firenze in una ditta di fiori artificiali, mentre io ero destinata a fare la sarta. Ma uno zio siciliano convinse i miei a farmi continuare a studiare. La mamma chiese a una maestra di preparami da privatista. Quelle lezioni furono una delle cose più importanti della mia esistenza. Studiavo con intensità, mi impegnavo, sapevo di essere una privilegiata».

Frequenta la scuola alberghiera, impara le lingue e fa il tirocinio negli alberghi in Svizzera e Francia. Poi torna a Firenze e inizia a lavorare per uno spedizioniere internazionale. «A 21 anni ho incontrato il mio primo marito, Edward De George, un italoamericano che cercava un’assistente per la sua ditta. Aveva 25 anni più di me, si innamorò follemente e ci sposammo». Maria, come vuole essere chiamata, dal nulla crea un’impresa, lavora giorno e notte. Erano i primi anni Sessanta, lei è una pioniera e dà forma e sostanza a un’azienda leader del settore export della moda Made in Italy. «Lui mi lasciava fare, era un gentiluomo di campagna. È stato il mio mentore, mi ha insegnato molto: dall’amore per la musica alla conoscenza dei vini». Una villa nel Chianti, una vita agiata, lini, argenti e servitù. È ormai una signora benestante e di successo, ma il matrimonio traballa.

«Un giorno mio marito mi disse che quell’estate avremmo ospitato uno studente di Berkeley. Non ero affatto contenta, avevo una montagna di lavoro da fare. Si chiamava Stephen Farrow. Quando andai a prenderlo mi trovai davanti un adone, alto, biondo, con gli occhi azzurri. Un dio greco in stivali da cowboy e camicia di poliestere. Mio marito partì per un mese, andò a pescare nel Colorado. E noi fummo travolti dalla passione». Insieme erano una coppia bellissima, sembravano Robert Redford e Barbra Streisand nel mitico film Come eravamo (e già si piange perché sappiamo come andrà a finire). Gli inizi sono romantici, due cuori e una capanna. Anzi una comune sulle colline californiane. «Alla certezza dell’infelicità ho scelto l’incertezza della felicità». Va a Santo Domingo per chiedere il divorzio: «Era il 1972, in Italia ancora non esisteva. Per separarmi dovetti lasciare tutto: la villa, la ditta, le macchine. Partii con duemila dollari e due abiti».

Sulle colline di Berkeley erano gli anni della Summer of love, degli hippie, dei sognatori. «Avevamo una stanza e un bagno, dove cucinavo su un ripiano di fortuna. Scolavo gli spaghetti nel water. E lavavo i piatti nella vasca. Ci sposammo e ricominciai da capo». Va a lavorare da Gucci dentro ai grandi magazzini Joseph Magnin. Parte dal basso, «perché bisogna essere sempre umili», ma è l’inizio della sua ascesa. Aldo Gucci le offre di diventare la distributrice del marchio in America. «Mi stimava. Ho sempre avuto con lui un rapporto speciale. Era un uomo eccezionale, aveva davvero il seme dei Medici. Quando Maurizio volle togliermi la distribuzione, si schierò al mio fianco, dicendogli: “Ma tu sei tutto grullo!”». Intanto Maria fonda la Manetti Farrow Inc, piattaforma numero uno nel campo della moda. È lei il vero motore dietro l’internazionalizzazione del brand negli Stati Uniti: «Ero impegnata 18 ore al giorno per 7 giorni alla settimana. Stephen era il presidente dell’azienda. Ma lavorare insieme non ci ha aiutato». La guerra dentro la famiglia Gucci la travolge. Maurizio gli revocherà «illegalmente» il contratto. E l’amore della sua vita la lascerà: «Dal 1989 al ’96 sono stati anni terribili. Vedevo scomparire tutto quello per cui avevo lottato. Ero sempre più irascibile, non dormivo, mi tormentava l’ingiustizia subita. Mio marito non capiva la mia disperazione e decise di andarsene». Nel ’92 con lungimiranza e prima della recessione vende l’azienda. «Ero disperata, ma anche in quell’occasione ritengo di essere stata una donna fortunata: avrei potuto morire d’infarto ogni giorno, invece sono ancora qui». Dopo essere precipitata in un buco nero, l’incontro con il buddismo le fa cambiare prospettiva. «Mi ha aiutato a rialzarmi, a combattere i miei attaccamenti: dovevo lasciare andare Stephen e l’azienda. Mi ha insegnato cosa è la compassione. Anche per Maurizio Gucci, che verrà ucciso da lì a breve. Grazie al buddismo ho iniziato il viaggio più difficile, quello dentro di me. E ho dato un significato diverso alle mie azioni: ho capito che era arrivato il momento di restituire quello che avevo ricevuto dalla vita e di fare felici le persone intorno a me».

Comincia dall’Opera di San Francisco, proprio lì dove andava cinquanta anni prima, potendosi permettere solo i posti in piedi. La musica operistica e sinfonica è da sempre la grande passione. Amica di Luciano Pavarotti, di Zubin Mehta, di Andrea Bocelli. Per la sua filantropia l’anno scorso San Francisco le ha tributato una serata speciale, illuminando la cupola del Duomo con il tricolore. Un onore concesso solo ai capi di Stato.

«La mia è una storia americana di tenacia e realizzazione, ma anche profondamente italiana. E la decisione di scegliere di fare il mio Educational Center a Palazzo Strozzi, uno scrigno dell’arte. ne è la testimonianza». Inaugurato lo scorso settembre, il Maria Manetti Shrem Educational Center è divenuto il cuore e il luogo di attività dedicate a chi è affetto da demenza, Alzheimer, autismo Parkinson. Tre sale restaurate e situate al piano nobile del palazzo, accanto all’ingresso delle grandi mostre sono uno spazio in cui è possibile trasformare l’incontro con l’arte in un’opportunità per i più fragili. Negli ultimi 12 mesi si sono tenute oltre 400 iniziative e il Centro ha accolto più di 20 mila partecipanti. Palazzo Strozzi è l’unico museo in Italia ad avere un laboratorio di questo tipo e la filantropa visionaria è la loro maggiore donatrice da oltre dieci anni.

«L’arte deve essere accessibile a chiunque. Quando sono a Firenze vado sempre a seguire le lezioni. Mi commuovo davanti all’interesse di queste persone. So che un numero enorme di famiglie affronta, spesso in silenzio e solitudine, la malattia neurodegenerativa dei familiari. E tra questi ci sono anch’io, con mio marito Jan». Jan Shrem è il suo terzo marito, importante collezionista d’arte, uomo di grande cultura, un «saggio, un vulcano silenzioso», come lo definiscono i suoi amici. Insieme sono la coppia di mecenati più formidabile della California, gli unici che riescono a smuovere e coinvolgere anche altri donors. «Con il cuore e con la mente si possono motivare molte persone. E poi penso che a questo punto della mia vita potrei avere un appartamento a Londra, la villa a Saint Barth, uno yacht, un aereo privato. Ma queste cose non mi interessano. Sono più che felice così».

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