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La lezione di quella prof

La lezione di quella prof

L’insegnante ferita dall’alunno in classe si è preoccupata subito dei suoi ragazzi. È lei a indicarci il valore che ha ancora la «buona» scuola.


«Come stanno i ragazzi?». La prima preoccupazione della professoressa di Abbiategrasso accoltellata in classe è stata per i suoi studenti. Proprio così: uno di loro tenta di ucciderla. La ferisce. Lei finisce in ospedale. Sei ore di sala operatoria. Cicatrici al braccio, alla spalla, alla nuca e nell’anima. Eppure appena si risveglia prende un telefono e parla con il preside. «Come stanno i ragazzi? Tornerò presto a scuola». In quelle parole mi pare di leggere la preoccupazione di chi sa bene che lì, fra quei banchi, si sta giocando una sfida decisiva per il futuro del Paese. Una sfida che, purtroppo, stiamo perdendo.

Una ricerca dell’Onlus l’Albero della Vita (Fadv), realizzata in sei città italiane con la supervisione dell’università di Palermo, rivela che il 76 per cento dei ragazzi non svolge nessuna attività ricreativa, il 43 per cento non possiede libri, il 53 per cento non è mai stato al cinema, il 78 per cento non ha mai partecipato a visite del patrimonio artistico o culturale. Solo il 17 per cento fa sport, solo il 15 per cento legge. Sembra, a giudicare da questi dati, che l’orizzonte mentale dei giovanissimi non vada al di là dello schermo del telefonino. Una vita ridotta a TikTok.

Colpa anche del Covid che ha dato il colpo di grazia a un sistema di relazioni sociali già di per sé ridotto a brandelli. Una volta le amicizie si coltivavano nei cortili o sui muretti, in ore di chiacchiere, guardandosi negli occhi, imparando a capire e a capirsi. Oggi l’amicizia è un vocale su whatsapp. I momenti di aggregazione si sono ridotti al minimo, gli oratori sono scomparsi, il cinema è stato soppiantato da Netflix, le società sportive annaspano fra mille problemi. La palestra è solo per chi può permettersela. I ragazzi si trovano dentro le tempeste emotive dell’adolescenza senza aver mai imparato a gestire le emozioni. Secondo la ricerca dell’Albero della Vita il 50 per cento di loro non sa esprimere felicità quando capita qualcosa di bello, il 65 per cento non sa gioire dei propri successi, il 67 per cento non si sente in grado di esprimere entusiasmo in occasione di feste o incontri con amici.

La generazione Dad&Skype è disarmata di fronte alle asperità della vita, inaridita di fronte alla complessità dei sentimenti. E alla povertà di relazioni si accompagna la povertà reale: secondo Save the children sono un milione e 300 mila i bambini che crescono in situazione di povertà assoluta, il 13,6 per cento del totale. Dieci anni fa erano il 5 per cento. I giovani «neet», quelli che non studiano né lavorano, sono uno su cinque, cioè il 19 per cento. Solo in Romania (19,8 per cento) fanno peggio. In Germania, tanto per avere un termine di paragone, i neet sono poco più dell’8 per cento. Nei Paesi Bassi il 4 per cento.

In questa situazione la scuola, è ovvio, diventa una trincea. Una frontiera. L’ultimo punto possibile di aggancio con una realtà giovanile che ci sta sempre più sfuggendo di mano. Ma anche su questo fronte non arrivano notizie confortanti: in dieci anni, rivela Tuttoscuola, sono scomparsi 2.621 istituti, di cui 1.705 al Sud. Nei piccoli centri dopo la stazione e l’ospedale, l’addio alle aule scolastiche significa un altro passo verso la morte civile. Ma che si deve fare? Il numero di studenti continua a diminuire: oggi sono poco più di 7 milioni, saranno 6 milioni fra dieci anni. Sempre più isolati. Sempre più lontani. Sempre più dimenticati.

C’è un problema demografico, come è noto. Ma c’è anche un problema di attenzione al mondo dei ragazzi. Dalla cronaca ci arrivano continui segnali di uno sbandamento collettivo, di uno smarrimento generale. Le baby gang, i suicidi, gli autolesionismi, gli psicofarmaci, lo sballo, le violenze a scuola: il fiume carsico del disagio sta straripando nella nostra quotidianità, ma è come se non riuscissimo a metterlo a fuoco. Eccediamo con le giustificazioni («Si fa qualche spinello? Che cosa vuoi che sia…», «Gira con il coltello? Roba da ragazzi…») per non accettare il fatto che il problema ci sta esplodendo tra le mani.

I professori sono i più esposti, i primi a rischiare di essere travolti da questa ondata distruttiva. Qualcuno, si capisce, non è attrezzato. Qualcuno non è preparato. Qualcuno si nasconde. La stragrande maggioranza degli insegnanti, però, è lì, in prima linea, ogni giorno, a fare i conti con quest’emergenza crescente, nel disinteresse generale. La stragrande maggioranza affronta a mani nude, senza mezzi e in solitudine, il vuoto generazionale di ragazzi che faticano anche a esprimere la loro felicità. Spesso questi insegnanti pagano in prima persona per il loro impegno. A volte finiscono persino in ospedale. Ma, allora, la prima cosa che fanno è chiedersi: «Come stanno i ragazzi?». Una domanda, che, forse, dovremmo farci un po’ più spesso tutti noi.

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