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Criticare è un’arte per pochi

Criticare è un’arte per pochi

La Guida Michelin? «Non vale più niente». Per valutare un locale? «Si parte dai cessi». Il mio mestiere? «Superato dagli influencer». Senza freni, lo scrittore di gastronomia racconta la sua vita da giudice dei ristoratori.


Dare un’occhiata ai cessi: questo faceva (anche) Edoardo Raspelli quando, primo in Italia, inaugurò una rubrica di recensione dei ristoranti. Era il 1975, non esistevano TripAdvisor e Internet, pochi parlavano di food (la parola non la conosceva nessuno), gli chef venivano considerati bruciapadelle (meglio se con panzone e divisa macchiata di sugo: il fascinoso Carlo Cracco, per dire, era di là da venire). I giornali trattavano di cucina raramente, come si fa con gli Ufo quando non si sa cosa scrivere. Raspelli, giornalista di cronaca al quotidiano del pomeriggio – allora esistevano – Corriere d’Informazione, prese a scribacchiare di piatti e cuochi su ordine del direttore Cesare Lanza, che ne conosceva la tendenza ad abbandonarsi alle scorpacciate. Ora, quasi 50 anni dopo, con 74 primavere sulle spalle, chili in più che vanno e vengono e un infarto ormai ventennale in carniere, Raspelli è sempre in campo. Soprattutto in televisione, con quello che lui chiama un cameo: titolo O anche no, 13 puntate di pochi minuti su Raitre, in onda la domenica fino al 10 settembre, sulla disabilità e l’inclusione, con particolare riferimento all’accessibilità dei ristoranti e alle condizioni di chi ci lavora.

Raspelli, intorno a lei il mondo è cambiato. In peggio?

La Guida Michelin non pubblica più gli hotel, nella sua versione cartacea, molto striminzita. Non vale più niente. Basta questo a capire quanto è cambiato il mondo.

Ma resta sempre la guida per la quale gli chef venderebbero la mamma.

Sì, ma se poi la leggi ti cadono le braccia. Molti ristoranti hanno la stessa nota degli anni precedenti. Ma dico io, almeno cambiare qualche parola. Oltretutto mi risulta che le visite, in rigoroso anonimato, avvengano.

Lei era un giornalista da marciapiede. Tra i cronisti assiepati intorno al cadavere del commissario Luigi Calabresi, assassinato a Milano il 17 maggio 1972, c’era un giovane allampanato, in impermeabile bianco. Come mai poi si è consegnato alla forchetta? L’ordine di Cesare Lanza valeva per tutta la vita?

Pensi che ho scritto il primo articolo sul Corriere della Sera a 17 anni. Raccontavo la mia infanzia nel centro tennistico di Pievepelago, dove giocava Adriano Panatta. Poi cominciai a collaborare nella pagina per i giovani. Presi 30 mila lire per il primo articolo. Il direttore Giovanni Spadolini, visto che avevo una buona scorza, mi mandò nel quotidiano del pomeriggio, al secondo piano di via Solferino.

E le forchette?

Lanza voleva le faccine nere, ordinò che scegliessi un ristorante dove si mangiava male e lo bollassi, tra gli altri da me segnalati e giudicati. Fu un successo clamoroso, non lo faceva nessuno. All’epoca non era complicato trovare ristoranti, anche di buon nome come il Biffi Scala, con cibo scadente. In Italia trionfava la mediocrità, quasi dappertutto.

Ma lei che competenza aveva per capire il buono nel piatto?

Ero da sempre appassionato di gastronomia, nonostante la magrezza: da bambino mi chiamavano Mauthausen. Mio padre, che era stato segretario nazionale del sindacato unico fascista degli ospedalieri, ma questo non c’entra, non sopportava aglio, cipolla, rosmarino, spezie. Così io e mamma andavamo spesso da una zia, che aveva trasformato la villa di campagna a Gargnano sul Garda in quello che oggi si direbbe relais & chateaux. La cucina era di altissimo livello, come tutto. Tra i camerieri aveva preso servizio anche un tale Rudolf Nurejev, che così arrotondava. Poi ricordo che da ragazzino me ne andai in Francia, a 16 anni, con l’autostop e il sacco a pelo. Ma non rinunciai a spendere quasi tutto, rassettato alla bell’e meglio, alla Tour d’Argent di Parigi, forse il locale più lussuoso d’Europa.

Il faccino nero fu l’inizio della sua fama.

Sì, il direttore mi diceva: se non metti il faccino non ti fila nessuno, resterai uno dei tanti. Così fui il terzo critico a trattare di ristoranti in Europa, il primo in Italia. Ai tempi c’erano solo, in Francia, Henri Gault e Christian Millau, poi celebri per la loro guida.

E siamo ai cessi, pardon ai bagni.

Fanno parte dei locali anch’essi, il cliente ha diretto di sapere se sono comodi, puliti o l’anticamera di una fogna. Per un giornale di automobili, diretto da Sandro Liberali, ho spiato i bagni degli autogrill, anche quelli femminili, a rischio di essere preso a borsettate dalle signore. Luigi Veronelli mi prendeva in giro, dicendo: sei un esperto di cessi.

Raspelli colpisce ancora o si è addolcito?

Non sono più il sacerdote dei faccini neri e vivo in un’epoca in cui la critica gastronomica, fatte forse una o due eccezioni, non esiste più. Ci sono gli influencer, il traffico talvolta poco chiaro di TripAdvisor. Se Massimo Bottura apre un ristorante a Hong Kong, per dire, non me ne frega nulla. A me piace entrare in un ristorante come un cliente qualunque, guardando però oltre il piatto. Per esempio, qualche tempo fa ho scritto della difficoltà che trova un disabile, o semplicemente uno non abituato alle scalate, nel ristorante a Novara del bravissimo Antonino Cannavacciuolo. Il locale gastronomico è parecchi gradini sopra il piano terreno, così come i bagni, e manca l’ascensore. Non vogliamo dirlo?.

Oggi però, sarà d’accordo, in Italia si mangia meglio.

Verissimo, ma trovo nei piatti molti prodotti omologati, venduti ai ristoratori dagli stessi centri di acquisto e stoccaggio. La stessa sella d’agnello; quintali dello stesso povero tonno ridottoa Carpaccio, rubando il termine a Cipriani, che non sa di nulla; carni con poco sapore; ingredienti che diventano di moda e ti propinano ovunque. Mi dicono che ci sia una generazione di chef capaci di osare, di scoprire, ma non mi sembra di vederli all’opera. Sarà che con gli anni sono diventato più orso del solito e me ne resto a lungo isolato, per quanto possibile, nel mio buen ritiro in Val d’Ossola.

Come andiamo con il pesoe la salute?

La bilancia mi dice che oggi peso 102 chili, ma sono stato addirittura 126, e in basso 88. Il mio è un mestiere a rischio e confesso che, nonostante le migliaia di ristoranti frequentati, rimango goloso impenitente. Nel 2002, quando pesavo 120 chili,ho subìto un infarto, che forse mi ha salvato la vita.Da allora mi curo e sto attento al peso. Ho provato diete, poi il palloncino, poi il bendaggio gastrico, che io chiamo supplizio gastrico. Eccomi qui, non posso lamentarmi. Continuo a trovare soddisfazione girando l’Italia. La conosco a menadito grazie alle mie perlustrazioni gastronomiche e alla tv,con trasmissioni di successo che ho condotto, come Melaverde. Poi scrivo per La Stampa, versione digitale, e diffondo un magazine online tutto mio. E canto, conosco a memoria Fabrizio De André, Herbert Pagani, Peppino di Capri, Enzo Jannacci, Luigi Tenco. Mi sono esibito di recente al museo della Croce Rossa, a Castiglione delle Stiviere, nel Mantovano.

A un’età in cui molti si dedicano al massimo alla pesca sportiva delle trote…

Già, io preferisco ancora apprezzarle cotte nel piatto. Ma non ho ricette di vita da dare, né consigli per tenersi in gamba. Dico solo che non smette di affascinarmi la bellezza, è un’iniezione di energia. Andare ai concorsi, stare in mezzo a ragazze e ragazzi, parlare con le mamme e i papà, mantiene giovani nello spirito. Alla mia età si fanno i bilanci. Sono profondamente ateo, con tutto il rispetto per la Chiesa, tanto che ricordo con affetto le mie suorine di quando ero in collegio. Pur con un tocco di leggera depressione, amo la vita, anche se non ne vedo il futuro ultraterreno.

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