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I fantasmi di Sherlock Holmes

I fantasmi 
di Sherlock Holmes

Arthur Conan Doyle, il «padre» dell’investigatore ultrascientifico, prendeva parte a sedute spiritiche, credeva nel paramormale, ipotizzava l’esistenza delle fate. Ma il fatto che in lui come anche nella sua creatura letteraria – coesistessero razionale e irrazionale lo rende ancora più moderno.


La prima volta non andò proprio benissimo. L’incompetenza dei partecipanti era tale che riuscì a irritare persino gli spiriti. Dopo aver letto il primo capitolo del Libro di Ezechiele, restarono seduti attorno al tavolino per circa mezz’ora, in attesa che succedesse qualcosa, ma nulla accadeva. Allora Henry Ball, uno dei partecipanti, prese il coraggio a due mani e decise di chiedere alle entità invisibili di inviare un messaggio. A quanto risulta, quelle risposero: «Sei troppo lento. Quanto tempo vuoi metterci?». Anche gli spiriti non avevano minuti da sprecare.

La stravagante scenetta si svolse il 24 gennaio 1887 a Kingstone Lodge, a nord di Portsmouth, in Inghilterra. L’elegante dimora georgiana che fece da palcoscenico alla seduta spiritica apparteneva a Thomas Harward, generale di corpo d’armata. Costui era amico e paziente di un giovane medico di origini scozzesi, nato a Edimburgo nel 1859 e destinato a una brillante carriera, anche se in un altro ambito. Il dottore in questione si chiamava Arthur Ignatius Conan Doyle, e nel 1887 aveva appena inventato un interessante personaggio chiamato Sherlock Holmes.

Come ha ricostruito Andrew Lycett nella bella biografia Conan Doyle. L’uomo che inventò Sherlock Holmes (pubblicata anni fa in Italia da Excelsior 1881), Arthur iniziò la stesura di Uno studio in rosso – il primo racconto con il formidabile investigatore protagonista – l’8 marzo 1886. Inizialmente, il personaggio avrebbe dovuto chiamarsi Sherrinford Holmes, e a raccontare le sue avventure sarebbe stato il suo coinquilino Ormond Sacker. Poi i nomi cambiarono: nacquero Sherlock Holmes e John Watson. Il nome del primo conteneva riferimenti al medico-filosofo Oliver Wendell Holmes e a Patrick Sherlock, vecchio compagno di Conan Doyle. Quanto a Watson, altri non era che James Watson, anche lui medico nato a Edimburgo e vicino di casa di Arthur a Londra.

Uno studio in rosso non riscosse grande apprezzamento fra gli editori. Conan Doyle collaborava già con alcune riviste letterarie, fra cui il celebre Cornhill. Ma il responsabile, James Payn, trovò la storia di Holmes troppo «popolare e melodrammatica». Dopo varie letture e altrettanti rifiuti, il testo fu acquistato per 25 sterline – una miseria – da Ward, Lock and Company, che ne programmò la pubblicazione sul Beeton’s Christmas Annual. Quando finalmente uscì, era già il 1887, e il pubblico… Beh, il pubblico ne fu immediatamente conquistato, la rivista andò esaurita nel giro di due settimane, e Arthur si ritrovò – senza aspettarselo – estremamente popolare.

In realtà, benché amasse le opere di Robert Louis Stevenson e di Edgar Allan Poe, Conan Doyle non aspirava certo a scrivere romanzi sui detective. Piuttosto avrebbe gradito essere apprezzato nei circoli letterari, come autore di livello. A parte vari racconti, aveva scritto un romanzo piuttosto ambizioso che aveva per protagonista tale John Smith, un cinquantenne vagamente arrogante, che i critici hanno definito un «esponente della middle-class vittoriana». Smith è bloccato dalla gotta nel suo appartamento, e si diletta a esprimere giudizi taglienti sul mondo che osserva dalla finestra o conosce tramite i racconti dei rari visitatori.

Purtroppo per Arthur, però, il manoscritto andò perduto, tanto che l’opera è comunemente conosciuta come Il romanzo fantasma. Fu recuperato dalla British Library nel 2011, e il Saggiatore ne ha appena pubblicato, in una nuova e bella edizione, la traduzione italiana, curata da Masolino D’Amico.

È proprio D’Amico a notare che in quel primo esperimento letterario ci sono in realtà tanti elementi interessanti. Il personaggio di John Smith e alcuni suoi comprimari ricordano per molti aspetti i futuri Holmes e Watson. In più, il protagonista del romanzo fantasma svela tante caratteristiche del suo autore: «Spregiudicato pensatore, per molti versi all’avanguardia della sua epoca; un vittoriano che crede nel progresso scientifico; un uomo di fede che disprezza quella gretta e bigotta delle chiese organizzate».

Vero: Arthur Conan Doyle credeva fermamente nel progresso scientifico. Come noto, il suo Sherlock è figlio degli sviluppi della scienza (tra cui la criminologia di Cesare Lombroso), ed è senz’altro un figlio – magari non del tutto legittimo – del positivismo. Inoltre, Arthur era estremamente ostile alla Chiesa, forse proprio perché cresciuto in un ambiente molto religioso.

Ma allora come è possibile che, proprio mentre partoriva il suo investigatore positivista, frequentasse sedute spiritiche e si dilettasse con faccende esoteriche? A un certo punto, più o meno dal 1919 al 1930, anno della sua morte, Conan Doyle divenne una sorta di ambasciatore dello spiritismo nel mondo. Tenne decine di conferenze in vari Stati, scrisse numerosi libri sulla sua ricerca delle presenze invisibili, partecipò a dibattiti ruvidi con uomini di Chiesa e fu pure parecchio dileggiato dalla stampa. Non solo: arrivò a pubblicare un libro sull’esistenza delle fate, capace di mettere in imbarazzo addirittura Harry Houdini – consumato uomo di spettacolo con tratti da imbonitore – che con lo scrittore aveva stretto amicizia, facendosi coinvolgere anche nelle attività «paranormali».

Come possono stare insieme questi due aspetti apparentemente opposti della sua personalità? A dirla tutta, viene da pensare che tra il Conan Doyle positivista e quello spiritista non ci sia alcun conflitto. Succede quasi sempre così: la massima razionalità si accompagna spesso all’irrazionalità più totale. Arthur era una cercatore della verità, e applicava il metodo scientifico anche allo spiritismo. La sensazione, tuttavia, è che egli bramasse qualcosa di più profondo del gelido positivismo. Ma, per trovarlo, non poteva affidarsi alla fede cristiana per via del suo fastidio verso il culto organizzato. Così sì rese vulnerabile ad altre e più astruse credenze.

Da un lato si presentava come un uomo molto colto, preparato, elegante, progressista, persino impegnato politicamente. Da medico condusse una vigorosa battaglia contro i «no vax» della sua epoca. Fu anche, in qualche modo, «terzomondista». Da poco l’editore Bordeaux ha pubblicato in Italia Il crimine del Congo, uscito originariamente nel 1908: un durissimo attacco alla politica coloniale di Re Leopoldo II del Belgio che rivela le posizioni umanitarie dell’autore scozzese.

Sull’altro lato, ecco però comparire la fascinazione per il mistero, l’oscurità. Già prima di dedicarsi alle sedute spiritiche, Conan Doyle seguì Madame Blavatsky, che con la sua teosofia fu capace di affascinare mezzo mondo (salvo poi concludere l’esistenza fra le accuse di impostura). La signora non era molto ben vista nemmeno nell’ambiente degli occultisti, tanto che un suo contemporaneo – citato con un certo compiacimento da René Guenon – la descrisse come «orribilmente brutta, mostruosamente grassa, di modi grossolani e violenti, con un carattere orribile e un linguaggio da ignorante». Tuttavia Arthur fu capace di prenderne le difese con vigore.

Chissà, forse è stato proprio questo connubio – in realtà estremamente moderno – fra razionale e irrazionale a consentire a Conan Doyle di creare un personaggio che oggi risulta più attuale che mai. Nel dare la vita a Sherlock Holmes egli aveva in mente le ricerche scientifiche del suo tempo, ma in qualche modo previde il futuro. Il suo personaggio è un materialista d’acciaio, devoto al progresso, un fanatico del lavoro (un «workaholic», come si dice) che per lenire il tedio fa ricorso a morfina e altre droghe, una mente brillante con marcati tratti narcisistici. Quando apparve su carta, poteva apparire una sorta di genio sregolato. Osservato con gli occhiali del presente, ci appare perfettamente corrispondente al modello attualmente dominante di «uomo di successo». In fondo, Conan Doyle, con un certo anticipo, ha colto perfettamente lo spirito del nostro tempo. Almeno quello, di spirito, gli ha parlato davvero.

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