Il pittore del Novecento trascorse un’esistenza intera in una sorta di reclusione domestica. Eppure la sua opera racchiude il mondo.
Di pochi pittori la storia è storia di una reclusione, come nel caso del pittore bolognese Giorgio Morandi. Per una grave manifestazione di irresponsabilità, la casa in cui egli ha vissuto per più di 50 anni, in via Fondazza 36, a Bologna, è stata smantellata senza ragione e senza pietà nei primi anni Ottanta. Ne resta documento nelle fotografie di Paolo Monti del 1981.
Così i dipinti di Morandi sono migrati, e migreranno, da una sede all’altra, in spazi ospedalieri sempre di più con l’aspetto di cliniche, in una gelida e alienante freddezza. Esiste ancora invece un luogo morandiano dove, nella solitudine, la sua anima si aggira: è la casa costruita a Grizzana, dove la famiglia Morandi, il pittore con le sorelle, trascorreva l’estate.
L’edificio, poco lontano dal borgo di La Scola, fu costruito nel 1960, e nell’estate di quell’anno è già abitato dal pittore che in agosto ricevette il suo critico più estremo, che fu anche il mio maestro: Francesco Arcangeli. È Arcangeli a scrivere: «La casa è semplice; ma è pulita, accogliente, dignitosa, “vera” come la famiglia che l’ha costruita. Ma Grizzana è bellissima. Non so se il “bello di natura” esiste o non esiste; a me pare di sì, e mi sembra quasi, persino una cosa oggettiva, anche se così non è. E il lavoro di Morandi m’è parso, ancora una volta, in concordanza piena e profonda con quel sobrio Paradiso che è la vallettina delle Lame».
Ci sono andato qualche mese fa, nei giorni dell’ultima polemica sul Museo Morandi, per sottrarre i dipinti dell’esilio del Museo d’Arte Contemporanea, il cosiddetto Mambo, secondo la volontà testamentaria. Certo, a vedere quegli spazi domestici, e poco lontano gli ambienti destinati alle mostre e alle opere degli allievi, in una pulizia e semplicità incomparabili, nella luce incantata che Morandi trasferì nelle sue tele, verrebbe da pensare che qui devono stare i dipinti, restituiti alla sacralità da cui discendono.
La casa a due piani fu progettata con le moderne comodità, tenendo come punto di riferimento quella di fronte, casa Veggetti, dove la famiglia Morandi veniva d’estate fin dal 1913, e sorge nel punto da dove il pittore amava riprendere il paesaggio di Grizzana con i fienili del Campiaro, la casa Vegetti, Villa Tonelli con lo sfondo dei monti di Veggio. In una celebre incisione, La strada bianca, si vedono le sagome dei fienili già trasferiti in luoghi del cuore. Difficile restituire, a chi non l’ha visto, l’emozione dell’ultimo studio di Morandi, con gli oggetti, le scatole, i quadri e i libri, nella stesse biblioteca di Franco Albini che i miei genitori avevano voluto nella casa di Ro agli inizi degli anni Sessanta.
Qui a Grizzana, come doveva essere in via Fondazza, tutto faceva pensare a un luogo di solitudine e di ritiro, un convento laico per una meditazione cercata, per un ritiro dal rumore del mondo. A Grizzana di quella condizione interiore resta, come posata sugli oggetti, l’aura. Potremmo così intendere, in un tempo che contempla due guerre mondiali, e il prima, il durante e il dopo del ventennio fascista, l’opera di Morandi, nelle piccole dimensioni dei suoi dipinti divisi fra paesaggi, nature morte e fiori, come un racconto di storia più ancora che un diario, attraverso il resoconto di una condizione psicologica di restrizione, che si proietta e si esprime negli stati d’animo di cui ogni dipinto è documento. La storia, per Morandi, non è ciò che accade all’esterno, ma ciò che accade nell’interiorità.
La vicenda domestica degli ultimi anni di Morandi si ricostruisce attraverso le reliquie di libri, pennelli, e anche pennelli da barba, e brillantina, zainetti, pacchetti di Philip Morris, cartoline, telegrammi. Nel 1961 Morandi torna a Masaccio, in occasione dell’attribuzione del trittico scoperto da Luciano Berti nella chiesa di San Giovenale a Cascia di Regello. Negli scaffali vediamo una monografia di Jean-Baptiste-Camille Corot, il Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline, pubblicazioni d’arte e cataloghi di Neri Pozza, gli studi in onore di Roberto Longhi, numero speciale della rivista Arte antica e moderna del 1961, il ricordo di una spedizione degli amici critici a lui vicini, in una cartolina da Philadelphia, per la mostra di Paul Cézanne, naturale precursore di Morandi.
Gli inviano saluti affettuosi Giulio Carlo Argan, Emilio Lavagnino, Palma Bucarelli, André Chastel, Cesare Gnudi, Enzo Carli, Cesare Brandi, che compone anche un distico: «Se col mangiare siamo in panne/ ci ristoriamo con Cézanne»: la data è il 16 settembre del 1961. L’estate sta per finire, ma dal suo tormentato epistolario con Francesco Arcangeli, sappiamo che in quell’anno Morandi si trattenne a lungo a Grizzana. Vi è ancora il 6 novembre, quando manifesta tutte le sue perplessità sulla monografia che Arcangeli gli ha sottoposto. È il momento più drammatico di una tensione irriducibile che contrappose il pittore al critico.
Il tono di Morandi è gelido, ultimativo: «Caro Arcangeli credo opportuno, ancora una volta, per l’ultima volta, pregarla di riconsiderare ciò che a voce, tante volte, le ho detto e raccomandato. Di astenersi cioè da inutili polemiche nel testo che lei prepara per la mia monografia particolarmente riguardo a Jean Cassou, a Giulio Carlo Argan e soprattutto a Cesare Brandi». Arcangeli, dei 50 anni di pittura di Morandi fra le pareti delle sue due case, in un densissimo e spesso angoscioso «Voyage autour de sa chambre», aveva inteso fare l’epicentro dell’arte e della critica d’arte del Novecento.
Prendendo spunto per incursioni e confronti con tutti i pittori dell’epoca, passati attraverso il filtro delle opere di Morandi, in una tensione insostenibile: Pablo Picasso, Paul Klee, Georges Braque, e poi Jackson Pollock, Wols, Jean Dubuffet, Willem de Kooning, Jean Fautrier, Alberto Burri, si misura con i critici come Argan e Cesare Brandi che, a partire dallo stesso Morandi, ne avevano date diverse e insufficienti interpretazioni. Arcangeli intendeva fare storia e contemporaneamente un processo alla storia. Non era quello che voleva Morandi: «Le faccio ancora presente come tutto quanto lei scriverà si potrà ritenere, e con ragione, come pienamente da me approvato. Cosa si potrà pensare del processo, si può dire, al quale lei sottopone il testo di Brandi per la mia monografia edita da Le Monnier, testo che io allora ho pienamente approvato e che pienamente approvo ancora?… come verrà giustificata tanta insistenza e severità per Brandi ?… E che cosa si potrà pensare del raffronto tra il mio lavoro e la poesia di Eugenio Montale, per giungere a stabilire una graduatoria?».
Il tono di Morandi è durissimo e stimolerà, il 12 novembre, una lunghissima risposta di Arcangeli sull’orlo della disperazione, per indicare le sue convinzioni: «E a quelle non posso già rinunciare perché scrivo su di lei. Lei è l’uomo fondamentale dell’arte italiana di oggi, è un passaggio obbligato, e a me che lavoro su di Lei corre l’obbligo morale … di non andare in Arcadia». Arcangeli non si riprenderà più, il suo libro verrà pubblicato solo dopo la morte di Morandi (oggi lo possiamo trovare in una edizione della stesura originale inedita, a cura di Luca Cesari, per l’editore Allemandi).
Il libro è forse il saggio più appassionato e anche autobiografico che un critico abbia mai scritto, nel quale la storia delle forme e il sentimento dei tempi si intrecciano. Arcangeli intuisce che nessun pittore come Morandi ha preso il soggetto come pretesto, nelle due clausure di via Fondazza e di Grizzana, prevalentemente (ma non esclusivamente) rappresentate dai due generi di pittura da lui praticati: nature morte e paesaggi. Sui quali proiettare stati di coscienza, la registrazione di una condizione interiore che non si esaurisce nella forma ma si fa documento, storia del mondo, in modo incomparabile rispetto ad artisti notevoli come Giorgio De Chirico, Filippo De Pisis, Carlo Carrà, suoi sodali che hanno sfiorato il loro tempo senza penetrarne il senso:
«Perché questa solitudine di Morandi, questa volontà di guardare tutto a nuovo, ma ritrovando ogni cosa entro la propria oscurità è, anche, capacità di disperazione, coraggio di spoglia esistenza… Nulla di quell’empito diretto, aereo, splendido e tranquillo che fu nell’impressionismo al suo acme tipico è in quelle tele e incisioni morandiane di cui tenteremo tra poco la difficile analisi: anzi qui è qualche cosa di struggente, sfumature come soffi, misure ormai incerte e tremanti, materia che rabbrividisce e coagula inquieta. Qui non è felice raptus, ma profonda dubbiosa interrogazione alle cose, abbandono, talvolta, a una grazia estrema consunta da troppo, e perciò non più presente, ormai dimenticato soffrire».
Nel primo tempo, tra il 1911 e il 1918, Morandi si misura con Paul Cézanne e sfiora gli esercizi del primo cubismo. A partire dal 1916 e soprattutto nel ’18 e nel ’19 elabora una sua rarefatta metafisica, nella quale prefigura addirittura Louise Nevelson, con la rievocazione di Giotto e Piero Della Francesca, in totale autonomia da De Chirico. Negli anni Venti dipinge il profumo di fiori nelle stanze chiuse e poi ne sigilla l’essenza in memorabili nature morte, ma sente il bisogno di un continuo ricambio d’aria nei paesaggi del soggiorno di Grizzana. Negli anni del fascismo le sue nature morte si fanno più dense e inquietanti. Con l’arrivo della seconda guerra mondiale egli sembra cercar nei paesaggi un altrove fuori del tempo e della storia, con una pittura sempre più libera. Il dopoguerra sono interni pensosi, assemblaggi di oggetti, composizioni strette e semplificate. Diversamente da tutti i suoi colleghi, Morandi punta alla monotonia dei soggetti. Non si è mai ripetuto, mai replicato.
È questa meditazione sul tempo e sulle cose che lo rende, in modo preterintenzionale, affine di Wols, Klee, Jean Fautrier. Morandi sente e fa anche la storia che non conosce. Stando riparato nelle sue case, egli è al centro del mondo, ne registra il movimento e il destino.