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Paolo Roversi: «Con i miei scatti racconto bellezza, moda, amicizia e complicità»

Paolo Roversi: «Con i miei scatti 
racconto bellezza, moda,
 amicizia e complicità»

Intensa chiacchierata con il fotografo Paolo Roversi a cui Ravenna, sua città natale, ha dedicato una ricchissima personale. Un progetto antologico, un lungo racconto per immagini di un uomo che davanti al suo obiettivo ha avuto le più belle donne del mondo. Il suo segreto? La lentezza. A Panorama rivela: «Non sono nervoso, mi serve concentrazione. A me piacciono le esposizioni lunghe».

Ha conosciuto le più belle donne del mondo, ha lavorato con stilisti straordinari, da Yves Saint Laurent a Rei Kawakubo, ha collaborato con le più prestigiose riviste di moda «e ho perfino cenato con Allen Ginsberg, a Venezia, alla trattoria Montin. E allora? Ero lì che mangiavo, in giardino, e Ginsberg era seduto a un tavolo, anche lui solo. Allora coraggiosamente gli andai a parlare. E così cenammo insieme. Io conoscevo già a memoria il suo Howl… e quella fu una bella serata». Non c’è pericolo che Paolo Roversi, fotografo di fama internazionale, anzi uno dei più sofisticati e poetici, si vanti del suo lavoro e della sua quasi cinquantennale carriera fatta di incontri importanti e di molti riconoscimenti. Ravennate, classe 1947, ultimo di cinque figli, a 17 anni si appassiona al linguaggio della fotografia al punto da realizzare una camera oscura in cantina. «In realtà ho sempre amato molto la letteratura già da quando ero ragazzo. Ho iniziato innamorandomi della poesia. Scrivevo versi, come tutti i miei coetanei degli anni romantici. Passavo le notti leggendo Pär Lagerkvist, Petrarca, poi Montale, Quasimodo, Ungaretti. Poi la beat generation mi ha fatto sognare ma alla fine la fotografia ha preso il sopravvento, non so neanche perché. Sono venuto a Parigi… et voilà!». Ora Ravenna dedica a Paolo Roversi un’importante personale al MAR, una mostra allestita su tre piani con immagini molto diverse tra loro: si parte dai ritratti di amici, di colleghi come Peter Lindbergh e Robert Frank, di top model per poi passare agli still life di sgabelli, di lampade e della Deardorff, l’amata macchina fotografica acquistata a New York «in un negozio che si chiamava Lens and Repro dove andavano anche Diane Arbus e Irving Penn».

Gli scatti di Paolo Roversi in Mostra al Mar di Ravenna

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racconto bellezza, moda,
 amicizia e complicità»
Paolo Roversi

Paolo Roversi. Autoritratto realizzato a Parigi nel 2011. Le immagini di questo servizio fanno parte della mostra monografica Paolo Roversi: Studio Luce, dedicata al fotografo ravennate. Tre piani di esposizione al MAR Museo d’arte della città di Ravenna, fino al 10 gennaio 2021.

Gli scatti di Paolo Roversi in Mostra al Mar di Ravenna

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racconto bellezza, moda,
 amicizia e complicità»
Paolo Roversi

Monica Bellucci, Parigi 2000 (per Vogue Italia).

Gli scatti di Paolo Roversi in Mostra al Mar di Ravenna

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racconto bellezza, moda,
 amicizia e complicità»
Paolo Roversi

Molly, Parigi 2015 (per Vogue Italia).

Gli scatti di Paolo Roversi in Mostra al Mar di Ravenna

Paolo Roversi: «Con i miei scatti 
racconto bellezza, moda,
 amicizia e complicità»
Paolo Roversi

Scale in legno, sgabelli, lampade: gli attrezzi nello studio Luce del fotografo, a Parigi. Un tributo allo spazio dove ogni creazione prende forma.

Gli scatti di Paolo Roversi in Mostra al Mar di Ravenna

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racconto bellezza, moda,
 amicizia e complicità»
Paolo Roversi

Saskia, Parigi 2013 (per la mostra su Azzedine Alaiïa al Museo Galliera).

Gli scatti di Paolo Roversi in Mostra al Mar di Ravenna

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racconto bellezza, moda,
 amicizia e complicità»
Paolo Roversi

Kate Moss La super top fotografata nel 1993 a New Yok, all’età di 19 anni. La foto è della Pace Gallery che rappresenta Paolo Roversi.

Gli scatti di Paolo Roversi in Mostra al Mar di Ravenna

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racconto bellezza, moda,
 amicizia e complicità»
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Roos, Parigi 2017 (per il libro Dior Images: Paolo Roversi).

Cominciamo dal titolo della mostra: Studio Luce.

È il nome del posto dove lavoro in Rue Paul Fort, a Parigi. Io ho sempre avuto degli studi domestici, anzi all’inizio fotografavo nella mia camera, spostavo il letto e quello spazio diventava il set. Non avevo molti soldi, ci si ingegnava. In seguito, ho avuto sempre studi abitazione, mi piace la continuità. L’importante è avere la luce: se non c’è luce non c’è fotografia, e se non c’è il buio, soprattutto, non c’è fotografia. Anzi, ancora più importante della luce è il buio. A me piacciono le esposizioni lunghe, mi piace concentrarmi. Non sono un fotografo nervoso, tac tac, finito. Non mi piace fare in fretta nulla. Per questa mostra ho impiegato più di un anno.

E le modelle che ha ritratto sono state pazienti davanti al suo obiettivo?

Io chiedo loro molta concentrazione. In questa specie di attesa c’è un dialogo silenzioso dal quale può venir fuori quello che c’è di vero della persona che ho di fronte. Le modelle non sono manichini, per me sono delle artiste, delle performer come le attrici, il loro lavoro è molto di più di una posa fotografica, è un’interpretazione di un ruolo, ogni volta diverso, che il fotografo deve riuscire a cogliere e restituire con uno scatto.

Come erano Naomi Campbell e Kate Moss quando le ha ritratte agli inizi della carriera?

Naomi ha sempre avuto un caratterino non docile, ma io riuscivo a metterla a suo agio e così dava il meglio di sé. Kate è una ribelle dal cuore d’oro, con una mentalità aperta e curiosa, è una brava professionista con un grande senso dell’amicizia. Poi, una modella nota negli anni Ottanta, Laetitia, è diventata mia moglie e la madre dei nostri tre figli, un cliché tipico dei fotografi.

Che cosa pensa di Instagram, le piace?

Lo trovo un mezzo fantastico soprattutto dal punto di vista commerciale, ma credo che non sia il luogo adatto per la fotografia. Io ho un profilo che gentilmente mi ha creato Natalia Vodianova, ma non mi appassiona. Amo la fotografia stampata che si tocca e si annusa. Mi piace vedere le foto incorniciate, appese nei salotti, mi commuovono le immagini sui comodini perché mi sembra di entrare in contatto con qualcosa. Sono invece contrario alla fotografia evanescente che passa sui monitor e presto viene dimenticata. Il valore della fotografia è proprio quello di essere un oggetto che ha una sua reale esistenza.

Si dice che abbia inventato il ruolo di musa.

No, quelli erano Dante, Petrarca, Omero. Io mi sforzo di mostrare la bellezza della delicatezza e della fragilità.

E la tristezza non la incuriosisce?

L’ho fotografata una sola volta. Quando Ezra Pound morì, volli andare a Venezia per fare delle foto. Quello è stato l’unico momento in cui ho scattato qualcosa di molto vicino alla morte.

Progetti futuri?

Una mostra a Parigi al Museo Galliera e un libro-dialogo sulla fotografia con il filosofo Emanuele Coccia.

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